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Anarchici, il terrorismo parte da Torino

Dagli scontri in piazza alla lettera-bomba al Sindaco Appendino. Ecco dove nasce il nuovo terrorismo italiano

C’è chi pensa che gli anni di piombo potrebbero tornare e chi crede che questa stagione non si sia mai conclusa. La lettera-bomba recapitata nei giorni scorsi al sindaco di Torino Chiara Appendino è un campanello d’allarme importante. Perché, a Torino, le cellule del terrorismo si passano il testimone da una generazione all’altra.

La manifestazione di sabato 30 marzo è la conclamata conferma che la galassia dei gruppi anarchici è una pentola a pressione. Affrontare questo fenomeno così allarmante è come camminare sulle sabbie mobili e Panorama ci ha provato intervistando il questore Francesco Messina - in partenza per il Viminale - e un pugno di investigatori capitanati dal capo della Digos, Carlo Ambra. Gli esperti poliziotti, più di un anno fa, sono stati inviati nel capoluogo piemontese per studiare e monitorare il piccolo esercito di anarchici, ben organizzati e presenti in tutto il Paese e anche nel resto dell’Europa.

«Abbiamo giocato una partita a scacchi e questa volta la mossa vincente è toccata a noi» dice la competente investigatrice che non nasconde la stanchezza, ma anche la grande soddisfazione. E aggiunge: «Perché l’arsenale rinvenuto è la prova che più di 750 anarchici non volevano manifestare e basta». Gli inquirenti, pur non celando la preoccupazione, si limitano a mormorare all’unisono: «Finché la preparazione militare e il numero dei terroristi si manterrà a questi livelli, il pericolo della lotta armata è sotto controllo. Ma non possiamo abbassare la guardia perché potrebbe esplodere un casino. In tempi rapidissimi».

La città della Fiat, della miriade di fabbriche chiuse e dei casermoni fatiscenti è ritenuta un laboratorio dell’organizzazione eversiva. Si alimentano, in questa miscellanea torinese, le cellule degli anarchici insurrezionalisti che sono ritenuti i più pericolosi, perché usano la rivolta violenta come mezzo per indebolire le istituzioni e per creare un nuovo ordine sociale. Il cavallo di battaglia del movimento rivoluzionario o, meglio di questo sodalizio criminoso, è l’azione contro la macchina delle espulsioni dei migranti: per raggiungere tale scopo cercano di creare le migliori condizioni per uno sbocco insurrezionale di massa.

In un’intercettazione ambientale si evidenzia chiaramente lo scopo dell’attività sovversiva: «Io voglio distruggere il sistema… Rompere gli equilibri di potere, che ti permettono di avere spazi se puoi anche di non controllo da parte dello Stato e… in autonomia. Perché quello che conta è raggiungere l’obiettivo finale. Io non devo guardare alla rivolta come singolo evento in cui non siamo riusciti a fare niente, ma devo vedere il fatto che tu hai progettato perché rimane chi è determinato…». Per indebolire lo Stato, oltre alle manifestazioni di piazza, il gruppo anarchico attacca le strutture di rimpatrio (i Cpr), sabota le società che prestano la propria opera in tali strutture. La cellula anarco-insurrezionalista sociale è diventata una sorta di catalizzatore della miriade di gruppi anarchici sparsi in Italia, Europa e anche oltreoceano. Si potrebbero descrivere come piccoli nuclei di combattenti - al massimo dieci compagni - che somigliano alle sette e che, se fossero più coesi, potrebbero raggiungere un numero che neppure gli inquirenti dell’Antiterrorismo saprebbero quantificare. «I numeri? Potrebbero essere 300-400 persone» dicono gli inquirenti. «Quando parte il tam tam anche virtuale - via Facebook, in modo particolare - è quasi impossibile prevedere quanti saranno gli anarchici allertati per azioni di sabotaggio o per mimetizzarsi durante le manifestazioni di piazza». La parola d’ordine? «Sono un anarchico perché lotto contro gli sfratti, il Cie, le carceri, la polizia, i ricchi: vogliamo la rivoluzione perché la gente come voi deve scomparire».

«Il giorno dello sgombero dell’Asilo gli anarchici hanno dimostrato una vera preparazione bellica e il controllo capillare del territorio. La nostra scrupolosa attività investigativa è cominciata quasi due anni fa» spiega il questore Messina. «Abbiamo capito che questo gruppo eversivo è così ermetico che si può paragonare a una monade; inoltre, è un’organizzazione fluida che non è collegata ad altre enclave terroristiche. L’operazione Scintilla ha destabilizzato i loro piani e in questa fase hanno bisogno di creare una saldatura con il resto dei movimenti anarchici e dei centri sociali». E aggiunge: «Francamente mi è sembrato fuori luogo la solidarietà nei confronti dello sgombero dell’Asilo di certi gruppi che manifestano pacificamente e che seguono la strada della legalità. Mi riferisco ai movimenti No Tav e a quelli degli studenti».

L’Asilo era la dépendance di setteotto attivisti, arrestati perché considerati la «mente operativa» del gruppo, punto d’approdo di anarchici italiani, spagnoli, greci, francesi, peruviani; in modo particolare, di quelli che hanno il fiato sul collo degli sbirri e cercano un rifugio sicuro. Per maggiore tranquillità perfino le telecamere che si trovavano negli edifici a due passi dall’Asilo erano state disattivate («Dobbiamo fare un rilievo completo delle telecamere con proprio la mappa di Openmap con il raggio che ha la telecamera: cosa vede, cosa non vede e poi studiare le cose» spiegava uno degli anarchici arrestati).

Gli investigatori della Digos torinese durante le indagini hanno trovato un escamotage per incastrarli - avendo la certezza che proprio l’Asilo era la base logistica e operativa degli attentati dinamitardi compiuti in Italia, che portavano all’invio di plichi esplosivi alle società di servizi che collaborano con il Cpr - e si accorgono che il gruppo pianifica minuziosamente tutte le fasi di attuazione ed esecuzione delle azioni più violente, cercando anche di non lasciare tracce che potrebbero ricondurre all’identificazione dei responsabili.

Così i poliziotti della Divisione investigativa fanno partire sei misure cautelari nei confronti di 13 militanti e dispone pure il prelievo del Dna. Questa disposizione scatena il panico fra gli autori degli attentati che si sentono vulnerabili e temono di avere lasciato qualche traccia di materiale biologico durante la fase di preparazione e di esecuzione delle azioni violente. E quindi alzano il «livello di attenzione» e prendono alcuni accorgimenti come fanno i latitanti mafiosi: recuperano i mozziconi di sigarette gettati a terra e li mettono in tasca; lasciano i cellulari in un’altra stanza durante le riunioni operative; fanno una mappatura delle telecamere nell’area, dove pianificano azioni anche violente.

Il vero grimaldello investigativo è che dopo il prelievo del Dna, improvvisamente, termina la strategia eversiva: la spedizione appunto di plichi esplosivi alle ditte che collaborano con i Centri d’identificazione e d’espulsione. Forse sarebbe stato più opportuno non eseguire i test del Dna, aspettare ancora qualche mese. «Abbiamo messo in fuga altri anarchici con progetti belligeranti?» si chiede il capo della Digos Carlo Ambra. E si lascia sfuggire: «Sicuramente le indagini non si fermano qui e lo abbiamo dimostrato in questi giorni».

Ci potrebbe essere una pista che porta all’estero. Peraltro un indagato non italiano dell’operazione Scintilla è finito nella rete della polizia e le forze dell’ordine sono certe che abbia lasciato l’Italia. Intanto, dopo la manifestazione di fine marzo la risposta degli anarco-insurrezionalisti non si è fatta attendere: «Riteniamo che sia quella la pista della busta contenente un congegno rudimentale recapitata al sindaco di Torino, Chiara Appendino» conferma la Digos. Questi segnali inquietanti potrebbero portare a un’evoluzione, anche armata, nella lotta? «C’è già stata» dice il questore Marino senza esitazione.

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