Coronavirus e vino, il bicchiere è mezzo pieno
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Coronavirus e vino, il bicchiere è mezzo pieno

Il mercato del vino soffre l'epidemia ma meno degli altri anche perché un bicchiere non fa male, anzi. Lo dicono anche i medici

In questi giorni durante i quali siamo vittime della Pandemia Covid-19 (Coronavirus), della paura del contagio, chiusi in casa con l'obbligo di fatto di non uscire, un buon bicchiere di vino italiano potrebbe essere un momento rilassante, una coccola per il corpo e per l'anima.

Il mondo del vino vive, come il resto, una congiuntura economica che, se non ben governata, potrebbe portare ad una crisi finanziaria irreversibile delle aziende, soprattutto quelle piccole che sono la maggiore risorsa del settore.

Eventi e fiere del settore cancellati, dal Vinitaly al ProWein di Dusseldorf che annulla e rimanda tutto al 2021, in Toscana disdette in massa di turisti, ristoranti oggi chiusi dal decreto ministeriale ma con l'incognita alla riapertura di trovarsi in mezzo al nulla, difficoltà logistiche con i trasporti ridotti al minimo, incassi fermi ma con le spese che corrono.

Questo quadro buio e poco rassicurante viene illuminato da Riccardo Cotarella, presidente di Assoenologi, che ci ricorda le importanti proprietà del vino, dichiarando " in seguito ad un confronto con importanti rappresentanti della comunità medica, bere vino aiuta a prevenire le infezioni. Un consumo moderato di vino, legato al bere responsabile, può contribuire ad una migliore igienizzazione del cavo orale e della faringe, area, quest'ultima, dove si annidano i virus nel corso delle infezioni. Invece la sopravvivenza del virus nel vino – spiega Cotarella – appare impossibile in quanto la concomitante combinazione della presenza di alcol, di un ambiente ipotonico e della presenza di polifenoli, impedisce la vita e la moltiplicazione del virus stesso".

Anche nella storia si narra che nel 1348 un Frate Francescano a Siena pare curasse le vittime della peste con il vino, che era comunemente usato dai confratelli per celebrare messa; visti i risultati incredibili, subito si diffuse la convinzione che tale vino avesse proprietà miracolose tanto da guadagnarsi l'appellativo di santo. E da qui la nascita del Vin Santo.

Cosa ne pensa il Prof Stefano Ciatti presidente di Vino e Salute?

"Bere un bicchiere di vino rosso a pasto fa bene alla salute, perché è ricco di antiossidanti che vanno ad inibire i radicali liberi, i polifenoli agiscono inibendo l'invecchiamento cellulare ed hanno un'azione positiva sull'apparato cardio circolatorio perché aumentano il colesterolo buono e riducono quello cattivo. Bere un bicchiere di vino al giorno funge anche da protettore della parete gastrica inibendo l'azione dell'helicobacter pylori".

Per capire invece come si potrebbe evolvere il mercato in quanto a diversi stili di vita, Carlotta Salvini, miglior sommelier d'Italia Fisar 2019/2020, ci dice: "Gli effetti dei cambiamenti nel comportamento relativo al consumo sono tangibili già nel breve periodo. Dal momento che le persone sono costrette a casa, aumenta la domanda del vino a domicilio prediligendo siti di rivendita specializzati, talvolta offrendo sconti sulla spedizione. Le piccole e medie imprese vitivinicole si stanno riposizionando in questo senso sul canale della vendita diretta, saltando i passaggi di filiera ed arrivando direttamente al consumatore finale, con servizio di spedizione. In questo particolare momento le grandi aziende vitivinicole che si sono posizionate sul canale della GDO possono essere sicure di avere il prodotto sul mercato, ma chissà ancora per quanto. In sostanza, il consumatore non rinuncia alle buone abitudini, come godersi un buon vino o fare l'aperitivo, ma in maniera responsabile".

Le aziende vitivinicole toscane, e non solo, vivono nell'incertezza ma con speranza, come ci racconta Alessandro Gallo direttore della splendida azienda del Castello di Albola della famiglia Zonin di 900 ettari, di cui oltre 125 coltivati a vite, "il sistema è mutevole di giorno in giorno, per ora si è fermata completamente la distribuzione Horeca (ristoranti e hotel), rimane la grande distribuzione che fino ad ieri continuava ad ordinare, ma ora vista la diffusione del virus, rimangono grossi dubbi e paure, il vino non è un alimento di prima necessità; per i più il vino è un bene di spensieratezza, della gioia di stare insieme, quindi sarà penalizzato sicuramente. Dobbiamo riuscire a far passare il messaggio che un buon bicchiere di vino fa bene al corpo e allo spirito".

Questa la riflessione di Sophie Conte, titolare della piccola azienda Tregole a Castellina in Chianti: "In quanto vignaiola produttrice sono abituata agli imprevisti, la natura ci insegna questo ed interagendoci cerchiamo di affrontare il cambiamento con positività.

Questo è il nostro lavoro. Cerco di far tutto nel mio piccolo per non distogliere l'attenzione sulla mia realtà e per mantenere quelli che sono i clienti acquisiti. È un'annata di consolidamento dei rapporti, e un'opportunità per reinventarsi. L'iniziativa che ho creato nasce proprio da questo pensiero.

In un momento dove le persone non si possono incontrare, la mia idea è partita dalla riflessione del dottor Cotarella che il vino "disinfetta". Ho lasciato un banco lungo la strada con le mie bottiglie ed un cartello con le istruzioni: le persone possono prendere una bottiglia del mio vino ed in cambio fare una donazione libera senza prezzo. È un momento di solidarietà è scambio".

Mentre il Prof Andrea Mazzoni consulente aziendale afferma: "Secondo me in tempi di grosso benessere c'è stato spazio anche per gli avventurieri sia in campo imprenditoriale che professionale; in seguito al CoronaVirus saranno solo i veri professionisti a poter operare. Dobbiamo lavorare su vini di qualità, saranno richieste sempre maggiori competenze, non solo in vigna e in cantina ma anche nella comunicazione e nella promozione".

Durante le nostre giornate di isolamento, godiamoci un buon bicchiere di vino italiano, anche due visto che non dobbiamo metterci alla guida, coccoliamoci con abbinamenti estrosi, ci aiuterà a sognare tempi migliori, respirare i profumi della nostra terra, riconnetterci con le nostre sensazioni positive per superare questo momento buio per l'umanità.

Le nuove rotte della frutta

Un coltivatore indiano di mango

(Ansa, Epa/Jaipal Singh)

Mango, avocado, litchi, papaya, frutto della passione... Oggi, complice il riscaldamento globale, arrivano dal nostro Meridione. Dove la superficie per queste coltivazioni è salita del 60 per cento. E anche il vino sta cambiando in meglio.

di Luca Sciortino

Quelle dei frutti sono vite di viaggiatori. Il pomodoro, nativo dell'America centrale e coltivato da inca e aztechi, arrivò in Europa nel 1540 con il condottiero Hernán Cortés; la mela, delle montagne del Tien Shan, Kazakhstan, si diffuse sulle vie dell'Eurasia; il fico, dalla Mezzaluna fertile viaggiò in tutte le civiltà antiche. E i frutti esotici? Il riscaldamento globale sta regalando loro una seconda vita. Mango, avocado, papaya, frutto della passione, macadamia, litchi, zapote nero stanno prendendo piede nell'Italia del Sud. Mentre, sotto l'influenza del clima che cambia, gli areali di coltivazione di piante conosciute come la vite, il pomodoro e l'ulivo si espandono verso Nord. La Coldiretti stima che negli ultimi cinque anni ci sia stato un incremento di 60 volte la superficie coltivata a frutti tropicali, fino ai circa 600 ettari attuali. Parallelamente, secondo Eurostat, l'Italia è passata da un consumo di avocado di meno di 4 mila tonnellate del 2007 a 22.340 tonnellate del 2016, e da un consumo di mango di 5 mila a quello di 9 mila tonnellate, a fronte di un accresciuto interesse nei confronti di questo frutto, molto richiesto nel Regno Unito.

Esistono due buoni motivi per ritenere che questo settore abbia potenziale di crescita. Il primo è che, dice un sondaggio di Coldiretti, il 70 per cento degli italiani acquisterebbe banane, manghi, avocado nostrani al posto di quelli stranieri, anche pagando di più. Il secondo è che, se si guarda al consumo totale (da importazione) di Paesi come Francia, Germania e Regno Unito, si scopre che l'Italia ha un divario da colmare non da poco: CSO Italy, aggregazione della filiera ortofrutticola, calcola che il consumo annuale di mango in Germania sia di 82.327 tonnellate, nel Regno Unito di 105.600 tonnellate, in Francia di 144.996, in Italia di sole 22.340; identica situazione per il mango, che vede in Germania un consumo pro capite di 790 grammi, nel Regno Unito di un chilo e 22 grammi, in Francia di 600 grammi, e di solo 150 grammi in Italia.

Se questo è il divario, l'Italia del sud potrà davvero colmarlo? Andrea Passanisi, fondatore di Sicilia avocado, azienda leader nel settore, oltre che presidente di Coldiretti Catania, dice che grazie al riscaldamento globale e a un cambiamento di cultura le coltivazioni di avocado sono cresciute da pochi ettari fino a 250 in pochi anni. Prevede che nella prossima decade le colture di frutta tropicale triplicheranno ma per la loro espansione esistono precisi limiti definiti da fattori pedoclimatici, ossia condizioni climatiche e fisiche: non tutti i terreni hanno un Ph basso, il giusto grado di acidità per coltivare l'avocado, o la giusta tessitura. E non tutte le terre del Meridione sono protette dalle gelate, quelle sud-orientali di Puglia, Molise e Abruzzo sono più esposte alle correnti fredde da est.

Di fatto, le storie di successo si moltiplicano. Una di queste riguarda Enzo Amata, proprietario dell'azienda agricola Bianco, il quale racconta che le sue coltivazioni di mango si estendono ora per quattro ettari e sono in piena produzione. «Siamo arrivati a questo punto per gradi: prima abbiamo valutato il terreno, poi abbiamo stabilito la distanza fra le piante e la loro orientazione da nord a sud. Infine, abbiamo fatto i sopralzi alla base di ogni pianta per evitare il ristagno di acqua, e costruito paratie frangivento». Così un terreno in prossimità del mare sulla costa messinese è diventato l'ambiente ideale di un frutto tropicale. Ogni ettaro accoglie circa 650 piante di mango che entrano in produzione dopo tre anni: «Il mio investimento è stato di 35-45 mila euro per ettaro e al settimo mi fruttano anche 30 chili ogni anno per pianta, da fine agosto a ottobre, ma con alcuni anche a dicembre» dice Amata. «I miei mango arrivano sui banchi del supermercato senza subire trattamenti, come accade spesso con quelli importati, fatti maturare con l'aggiunta di additivi chimici in appositi forni». Non è un caso, d'altronde, che l'Italia abbia il minor numero di prodotti agroalimentari con residui chimici irregolari (0,8 per cento), 1,6 volte meno della media dell'Ue (1,3 per cento) e sette volte di quella dei Paesi extracomunitari (5,5 per cento).

Secondo i dati di Coldiretti, tra Messina, l'Etna e Acireale, si coltivano frutto della passione, zapote nero (al gusto di cioccolato), sapodilla, bacca di origine messicana, e il litchi, che può crescere non solo in Calabria e Sicilia ma anche in Sardegna. In Calabria, accanto a mango, avocado e frutto della passione, c'è la melanzana thai, variante thailandese della nostra, noci macadamia e canna da zucchero. L'annona, frutto tipico del Sudamerica, si sta diffondendo lungo le coste calabresi e viene usata anche per le marmellate.

Un altro effetto dell'aumento delle temperature medie è rendere più veloci le reazioni biochimiche alla base della maturazione dei frutti, mentre l'incremento della CO² migliora l'efficienza fotosintetica delle piante. Le conseguenze variano da specie a specie: mais e girasole risentono della crescita precoce più di specie invernali come il frumento; e gli ulivi si stanno spostando più a nord, correndo il rischio di gelate tardive con enormi perdite economiche. Negli ultimi dieci anni, la coltivazione dell'ulivo è passata da zero a circa 10 mila piante sui fianchi della montagna valtellinese, per 30 mila metri quadrati di terreno. In Toscana sono arrivate le arachidi e dalla Pianura padana viene oggi circa metà della produzione nazionale di pomodoro destinato a conserva.

L'uva germoglia in anticipo, perché le estati sono più lunghe e le primavere più miti. Il suo contenuto di zucchero è cresciuto e i vini sono diventati più alcolici, in media, di un grado. Infatti, i lieviti responsabili della trasformazione del mosto hanno più zuccheri da trasformare in alcol. Il fatto che 13 gradi, ma anche 14 o 15, siano la norma per un buon vino è stato salutato con favore dai Paesi del Nord Europa che ora non devono aggiungere saccarosio per incrementare la gradazione.

Per diminuire gli effetti del riscaldamento globale i viticoltori italiani hanno cambiato la disposizione dei filari: di norma, sono disposti in direzione nord-sud per ricevere più sole. Ora si decide spesso di disporre i filari da est a ovest in modo che le foglie, orientandosi verso sud, coprano i grappoli esposti a nord, proteggendoli dall'irradiamento che altrimenti li degrada.

Per altre regioni il riscaldamento globale è stata una manna. Un tempo i vini dell'Alto Adige erano più acidi e freschi. Ora i produttori altoatesini addirittura corrono il rischio di un vino troppo alcolico. Nel comune di Morgex e di La Salle (Aosta) oggi crescono i vitigni più alti d'Europa, 1.200 metri, da cui si ricavano le uve per il Blanc de Morgex et de La Salle Dop.

Ma il clima che cambia porta anche una più elevata frequenza di eventi estremi, sfasamenti stagionali, lunghi periodi di siccità, precipitazioni brevi e intense che impoveriscono i terreni e nuovi pericolosi parassiti. Problemi che incombono sul futuro e che non sono ancora percepiti dagli agricoltori italiani con l'urgenza che meriterebbero.

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Federico Minghi