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Corea del Nord: la strategia di Russia e Cina

Pechino e Mosca vogliono il "double freeze", il congelamento delle attività militari nella penisola coreana. E così usano l'impreparato Donald Trump

Chi è stato in Cina, come chi è stato nella vasta Russia asiatica, se n’è accorto subito: la carta geografica del mondo non è disegnata come da noi in Occidente. Miliardi di persone osservano tutti i giorni un mondo rappresentato con al centro la Cina e la Russia; a sinistra Europa e Africa, a destra l’immenso pacifico e vicino al bordo le Americhe.

Questa premessa geografica serve a spiegare come mai la crisi con al centro la Corea del Nord si trovi in una situazione d’impasse. Semplice: la narrazione dell’Occidente non coincide con quella dell’Oriente. In altre parole Cina e Russia fanno una lettura (certamente interessata) completamente diversa da quella degli Stati Uniti.

Quella che per “noi” è l’unilaterale escalation voluta dal regime di Pyongyang, per Pechino e Mosca è invece una doppia escalation. Che poi questa interpretazione sia meno aderente alla realtà della nostra è un altro discorso; la controparte agisce come se lo fosse.

COS’È IL DOUBLE FREEZE

È la teoria del Double Freeze, anche detta "suspension for suspension". A Pechino e a Mosca è un’espressione di uso comune, e sta a indicare la contemporanea e reciproca sospensione di qualsiasi attività nucleare della Corea del Nord e delle esercitazioni militari americane in Corea del Sud.

Anche l’ultima riunione del Consiglio di Sicurezza ONU ha sancito questo scenario; qui l’alleanza sino-russa ha di fatto sepolto la politica delle sanzioni economiche (perché inefficaci) ed evidentemente escluso quella della forza militare, lasciando aperta solo la strada della diplomazia.

E l’unica proposta in campo è appunto il double freeze. A Washington sanno bene che le due escalation non sono paragonabili, ma questo conta fino a un certo punto perché non si sta giocando all’insegna del fair play; in gioco c’è la futura supremazia globale.

COSA VUOLE PECHINO

Pechino, ormai è noto, contenderà nel prossimo ventennio il ruolo di prima potenza mondiale agli Stati Uniti. È un processo di medio periodo evidente a tutti gli analisti. L’asset coreano uscito dalla guerra del 1953 non è quindi più valido e ora la Cina intende ritagliarsi un ruolo egemone nella Regione, che poi è il suo cortile di casa. Il Giappone, cioè l’ex dominatore coloniale della penisola coreana, e soprattutto gli Stati Uniti, cioè sino ad oggi i protettori della democrazia grazie al supporto ininterrotto a Seul, per la Cina rappresentano il passato.
Le costanti provocazioni di Kim sono quindi l’arma principale di Pechino (e del suo contingente alleato, Mosca) per intaccare non solo il prestigio americano, ma la stessa posizione strategica in Asia degli USA.

D’altronde i tempi sono maturi, visti dalla prospettiva sino-russa. Entrambi i paesi hanno compiuto dalla caduta del Muro di Berlino una radicale trasformazione, e alle nuove aspirazioni imperiali d’entrambi poco s’addice il mondo disegnato dalla Guerra Fredda. Dopo il Muro di Berlino, insomma, è ora che anche il Muro Coreano sul 38° parallelo cada o si trasformi. Inoltre, come mai prima d’ora, alla guida della Casa Bianca c’è una figura controversa come quella di Donald Trump.

IL PIVOT TO ASIA

Non stupisce infatti che Vladimir Putin non perda occasione per difendere il Tycoon, e Pechino abbia voluto rendere una cortese visita a Washington. Per i nemici dell’America, Trump e la sua amministrazione sono i rivali perfetti. Va anche detto che l’eredità lasciata da Obama sul dossier Asia non è stata delle migliori.

Il "Pivot to Asia" del 2011 voluto da Obama, ossia il drastico spostamento della bussola della politica estera e commerciale americana verso oriente, è ormai fallito. A Trump sono rimasti i cocci di una dottrina giusta nelle premesse ma assai mal attuata, perché è riuscita solo a innescare la reazione di Pechino.

Citeremo solo tre punti della dottrina Obama:

  • lo spostamento del 10% delle forze armate USA verso il Pacifico;
  • l’innalzamento del Giappone a principale alleato asiatico per la Casa Bianca;
  • l’avvicinamento al Vietnam con la fine del relativo embargo sulle armi.

A queste tre mosse Pechino ha risposto giocando la sua carta: la Corea del Nord.

Lo stesso Steve Bannon, lo stratega di Trump appena silurato, lasciando Washington ha confessato un solo rammarico: chi si opporrà adesso alla Cina? Con lui è andato via sì il suprematista bianco (e il principale capro espiatorio di Trump) ma anche l’unico membro dello staff consapevole di come la Cina abbia ormai lanciato il guanto di sfida agli USA per il primato mondiale.

La debolezza di Bannon è stata la sua impresentabilità, sulla quale i media hanno colpito senza tregua dal primo istante, ma certo con la sua uscita di scena la Casa Bianca resta senza strategia in Asia, e non solo.

L'obiettivo di Cina e Russia

La crisi coreana lo dimostra. Pechino e Mosca vogliono portare Trump al tavolo con la Corea del Nord per parlare di tutta la penisola coreana, Sud incluso, e continueranno a usare Kim sino a quando tornerà loro utile.

Come spiegare altrimenti il sostanziale aplomb di Cina e Russia rispetto ai missili di Pyongyang che volano così vicini ai loro confini? L’obiettivo è solo uno: il double freeze, una soluzione dove Washington e Seul hanno tutto da perdere e Pechino e Mosca tutto da guadagnare. Trump non si trova in una posizione facile e, per una volta, non ci si è messo lui e per di più nessuno vorrebbe essere nei suoi panni.

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Alessandro Turci

Alessandro Turci (Sanremo 1970) è documentarista freelance e senior analyst presso Aspenia dove si occupa di politica estera

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