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Catalogna: i 5 errori di Puigdemont

Dal referendum alla fuga a Bruxelles, quella dell'ex presidente catalano è una disfatta su tutti i fronti

I 5 errori di Carles Puigdemont, pasticcione figlio di pasticceri. Forse non è azzardato dire che con l’ormai ex presidente della Generalitat Catalana commissariato dal governo di Madrid, tramonta per anni l’aspirazione di una parte (sempre minoritaria) dei catalani alla secessione dalla Spagna.

Il finale della favola o follia dell’indipendenza di Barcellona, perseguita con imperdonabile leggerezza da Puigdemont e dal suo governo “locale”, vede il leader scappare da Barcellona col suo staff in un comodo appartamento brussellese, cercando asilo pur senza chiederlo, nella capitale dell’Unione Europea che mai potrebbe accettare la dichiarazione d’indipendenza del parlamento catalano (pena il risorgere di tutti i piccoli e grandi separatismi europei).

Puigdemont ha sbagliato tutto, ma proprio tutto, giocando col fuoco e poi mostrandosi non all’altezza del ruolo che sperava di ritagliarsi nella storia d’Europa e in particolare della Catalogna.

  • Ha sbagliato a indire un referendum per l’indipendenza quando da sempre la maggioranza dei catalani è contraria alla secessione. Tanto che anche la dichiarazione del 27 ottobre ha avuto una maggioranza parlamentare a Barcellona di appena due voti. Non si fa la secessione con a stento la metà dei parlamentari a favore.
  • Ha sbagliato a celebrare un referendum che aveva tutti i crismi della totale illegalità costituzionale, perché la Carta fondativa della Spagna dice chiaramente che il Paese è uno e indivisibile. La secessione, di conseguenza, è illegale. Ma lo è stata ancora di più per il modo in cui le votazioni si sono svolte: senza liste ufficialmente registrate, con urne arrangiate e addirittura in qualche caso portate da casa, con uno scrutinio privo di regole certe e osservatori imparziali, e per di più la popolazione contraria all’indipendenza che non avendo riconosciuto la legittimità della consultazione, è rimasta a casa.
  • Ha sbagliato a tentennare e oscillare, una volta imboccata la strada della secessione, tra la dichiarazione e la non dichiarazione, o meglio tra la dichiarazione implicita e quella esplicita d’indipendenza. Ha fatto la voce grossa senza averne i decibel col governo di Madrid, pretendendo un dialogo impossibile e scontrandosi con la difesa della legalità costituzionale rigorosamente affermata dal governo Rajoy (e dal Re).
  • Ha sbagliato, in un certo senso, anche a fuggire. La sua promessa di rientrare in Spagna se gli sarà garantito un processo equo è ridicola, se consideriamo le battaglie degli indipendentisti di altri paesi e in altri momenti storici, che sono addirittura morti in prigione per “la causa”. Il governo catalano (ex) si è addirittura spaccato, restando per metà a Barcellona, dopo il commissariamento. Qualcuno dietro le sbarre, qualcun altro a Bruxelles. Ad abbaiare alla luna.
  • Ha sbagliato, infine, a non considerare la forza non solo di quella tradizionale maggioranza unionista catalana che aveva sempre scongiurato il precipitare della situazione, ma le ragioni del mondo produttivo della più ricca regione della Spagna, con le sue banche e grandi imprese (anche straniere) aperte all’Europa e al mondo, che si sarebbero ritrovate il giorno dopo fuori dall’Unione europea, dal sistema bancario e dall’Euro.

Una disfatta su tutti i fronti, senza neppure l’investitura di un ideale da tutti condiviso o di un eroismo che sa di nazionalismo romantico. Insomma, un pasticcio.

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Marco Ventura

Inviato di guerra e cronista parlamentare de Il Giornale, poi  collaboratore de La Stampa, Epoca, Il Secolo XIX, Radio Radicale, Mediaset e La7, responsabile di uffici stampa istituzionali e autore di  una decina fra saggi e romanzi. L’ultimo  "Hina, questa è la mia vita".  Da "Il Campione e il Bandito" è stata tratta la miniserie con Beppe Fiorello per la Rai vincitrice dell’Oscar Tv 2010 per la migliore  fiction televisiva. Ora è autore di "Virus", trasmissione di Rai 2

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