Roberto Calderoli
ANSA/ANGELO CARCONI
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Calderoli: "Ecco come ho sconfitto il tumore"

Il senatore racconta i suoi 7 anni di lotta al cancro e lancia un messaggio a Sinisa Mihajlovic

Ci sono messaggi che sembrano pergamene in bottiglia o bip da altri mondi. «Io ho vinto, vincerai anche tu, Sinisa». Questo arriva mentre è ancora forte la commozione per la rivelazione di Mihajlovic, per la divulgazione della malattia e della paura, per la grande dignità con la quale l’allenatore del Bologna che fu formidabile giocatore di calcio si appresta a combattere la leucemia. È firmato Roberto Calderoli, due volte ministro, quattro volte vicepresidente del Senato. Anche lui con il pigiama e il camice bianco per sette anni, anche lui ad alternare cure devastanti a mozioni d’ordine in aula. Sa come si fa. C’è tempo per lottare e c’è tempo per parlare.

«Ascoltando quella conferenza stampa mi è tornato in mente tutto, disperazione e bagliori di luce. Ho sempre apprezzato il carattere da gladiatore di Mihajlovic, so cosa prova e gli sono vicinissimo. La prima barriera da rompere è quella del silenzio, perché all’inizio ti prende un senso di vergogna come quello che un tempo accompagnava le malattie psichiatriche o l’Aids. Hai a che fare con qualcosa che per la società è ancora intoccabile, indicibile».

Perché il pudore diventa debolezza?

Perché la nostra società che tende alla perfezione rifiuta il concetto di morte. Sembriamo invicincibili, ma non siamo mai preparati all’evento di cui c’è più certezza. Il nostro è un regresso rispetto alla società contadina, che essendo in sintonia con la natura contemplava la fine.

Non le sembra un approccio troppo millenarista?

Guardi, io ho l’abitudine di andare ogni settimana al camposanto a trovare i miei genitori. Ho fatto di tutto perché il papà venisse seppellito con la mamma, la burocrazia è micidiale anche oltre la vita. Lì di gente ne vedo veramente poca. Eppure quello dovrebbe essere il rapporto più tenero e forte perché ha a che fare con la vita eterna. Forse è solo la testimonianza di un rapporto con la fede che purtroppo si sta perdendo.

Mihajlovic lotta e lei ricorda. Presidente, quando cominciò il suo incubo?

Le faccio una premessa, a me non importa ripercorrere pubblicamente quella lunga e accidentata strada. E se lo faccio è solo perché voglio essere d’aiuto con la mia esperienza a tutti coloro che hanno sulle spalle il peso della malattia senza essere persone pubbliche, quindi privilegiate. Parlo pensando a chi non ha voce ma ha diritto di avere la stessa speranza. Diffidate della prima diagnosi, diffidate di chi vuole operarvi al volo. Comunque era il giugno 2012 e stavo al Senato come oggi, quando mi è arrivata la mazzata a tradimento.

Ce la spieghi.

Non avevo nessun sintomo, prenotai semplicemente un controllo di routine in una clinica romana. Un medico mi disse che avevo una noce nella pancia e mi prescrisse una Tac. La feci una mattina alle otto, prima del turno di presidenza. Responso: ascesso retroperitoneale. Il chirurgo mi disse: «Se vuole la operiamo subito». Ero frastornato, chiesi un timeout e andai al bar di fronte a prendere un caffè. Lì, qualcuno mi spiegò che nella clinica non avevano neanche la rianimazione. Prima fuga.

Però la noce di carne esisteva e cominciava a condizionarle la vita. Cosa fece?

Chiesi consiglio a un altro medico che mi disse: «Vai dal chirurgo che ha operato mia moglie». Altra clinica, altro ricovero da un famoso professore, cinque giorni in parcheggio.Le Tac però non mostrarono un ascesso, ma un tumore all’intestino cieco con le metastasi già in giro. Vengo operato e all’uscita dalla sala operatoria il chirurgo mi dice: «Abbiamo tolto tutto, asportato i linfonodi, lei è guarito». Mi consigliano un oncologo.

Sembrava la fine, era solo l’inizio.

Nell’estate del 2012 vado a Modena e lo specialista mi toglie ogni illusione: quel tipo di tumore necessitava di un altro intervento perché le metastasi erano in giro per il peritoneo. La faccenda diventa complicata per due motivi: io non voglio tornare sotto i ferri e il primo chirurgo è contrario all’intervento. Di più, mi spiega che mi vogliono rioperare solo per farsi un nome. In famiglia è un periodo micidiale, dominato dall’incertezza e dall’angoscia. Comincio a pensare a come sistemare la mia vita, agli ultimi mesi da vivere.

Come ne siete usciti?

Io sono per il no, mia moglie per il sì. Così comincia il pellegrinaggio della speranza che molti conoscono. Decidiamo di andare a Parigi, all’Istituto Oncologico Roussy, dove opera uno dei massimi esperti mondiali. La sentenza: «Devi essere rioperato». Poi spiega di avere un posto libero la vigilia di Natale e presenta i costi: 250 mila euro di intervento più gli esami e la degenza, per un totale attorno ai 400 mila euro. Vede la mia faccia e aggiunge che a Padova c’è un collega italiano bravissimo che fa l’intervento con il Servizio sanitario nazionale. È il professor Donato Nitti, mi salverà la vita. E dopo di lui il dottor Pierluigi Pilati.

Nel frattempo il politico Calderoli continua a lavorare e a fare la spola fra Roma e Bergamo. Poi il ricovero.

In quel periodo c’erano le riforme costituzionali, ricordo che Maurizio Gasparri e Ignazio La Russa venivano in clinica con gli emendamenti da firmare. A Padova mi trovarono tumori e metastasi in ogni parte dell’intestino. E per la prima volta dall’inizio dell’incubo mi fecero una colonscopia; nessuno ci aveva pensato prima. Intanto il professore di Roma mi telefonava per confermarmi che ero guarito e che, se anche avessi dovuto farmi rioperare, avrebbe avuto lui il diritto di farlo.

L’appuntamento per l’intervento decisivo era per gennaio 2013.

Fu quello più pesante. Entrai alle 7 e 30 di mattina in sala operatoria e uscii alle 11 di sera. Oltre 15 ore, poi la rianimazione. Quando tornai nel mondo dei vivi, mi rivelarono che avevano trovato una metastasi della dimensione di un melone. Ricordo l’incazzatura al pensiero che altrove, sei mesi prima, mi avevano detto che era tutto a posto. Ora il giudizio su quella vicenda lo emetterà il tribunale.

Come ricominciò la sua vita?

Una cosa tremenda, ero in giro con i tubi nella pancia. Facevo i comizi e andavo in Senato con i drenaggi sotto la giacca. Tutti i giorni, due volte al giorno, dovevo infilarmi le cannucce nell’addome per i lavaggi. Sono medico chirurgo maxillo-facciale, ho una certa dimestichezza con la materia. Continuo a domandarmi come avrebbe fatto un comune mortale.

In primavera ha annunciato di essere guarito, sette anni dopo.

È stata una via crucis, ho avuto molte recidive, ogni tanto la bestia rispuntava. Ogni sei mesi dovevo sottopormi a piccoli interventi, non so più neppure quanti ne ho fatti. Forse sei, forse di più. E i cicli di chemioterapia, e quelli di immunoterapia. Uno strazio.

Cosa le ha dato la forza di arrivare fino in fondo?

La fede. Sono credente, un’altra vita c’è. E allora il pensiero che ci fosse qualcuno che vegliava su di me mi ha aiutato tanto. In sala operatoria avevo davanti la madonna di Lourdes; ci ero stato da bambino con mia mamma.

Cosa consiglia a chi si trova una mattina davanti alla malattia del secolo?

Non sottovalutate mai nulla. Mai rinviare a domani l’esame che si può fare oggi. Quando hai 30-40 anni ti senti invulnerabile, invece non è così. Basta un esame del sangue, un Psa, una mammografia per dare l’allarme e curarsi. Un secondo consiglio è quello di non andare all’estero perché in Italia ci sono eccellenze. Siamo bravi, fidatevi. Però...

Però, presidente Calderoli?

Però non fermatevi al primo consulto, andate in profondità. E non usate internet, il peggior informatore che c’è. Leggi e ti viene voglia di buttarti dalla finestra.

Lei è diventato un punto di riferimento per molti malati.

La gente mi chiama, mi chiede consigli. Una continuità rispetto alla professione di medico. È la lista d’attesa per la vita. Andare nel posto sbagliato o finire tardi nel posto giusto significa morire.

Mihajlovic ha fatto bene a condividere tutto?

Sì, inutile nascondere. Il tumore viaggia laddove ci sono difese immunitarie deboli, quindi la condizione psicologica è fondamentale. Il contesto, la condivisione, il supporto ti possono aiutare, anche se la reazione decisiva è quella interiore. In ballo c’è la vita.

Adesso l’incubo è davvero finito?

Rispetto al passato rido. Ma ogni tre settimane mi devo infilare un tubo nella pancia con una pompa, lo faccio da solo. Prossimo controllo a settembre. Ti abitui a pensare che la vita ha scadenze più vicine. 

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Giorgio Gandola