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Brexit: il Parlamento dice "No". Cosa può succedere adesso

Il Parlamento ha detto NO. Ecco cosa può succedere ora alla Brexit e a Theresa May

Con 432 No e 202 si il Parlamento di Londra ha votato No all'accordo raggiunto dalla premier, Theresa May con l'Europa sulla Brexit. Un risultato per certi versi atteso, magari non con queste proporzioni. Ed ora si apre una fase ancor più caotica aperta a mille scenari, alcuni anche drammatici

Da un mese sulla «graticola».

Realizzando di non avere i numeri, la leader dei Tory aveva deciso di rinviare il fatidico voto in Parlamento sul testo delle condizioni di uscita dall'Ue, fissato l'11 dicembre, per non rischiare la bocciatura. Poi, per arginare la fronda interna dei colleghi di partito scontenti della sua svolta verso una Brexit “soft” dopo quasi due anni di altalenanti trattative e svariate dimissioni (come l’addio, a luglio, del ministro della Brexit David Davis e del titolare degli Esteri Boris Johnson), May aveva giocato il tutto per tutto, assicurandosi a carissimo prezzo (la rinuncia a correre nelle prossime elezioni nel 2022) di restare in sella a Downing Street.

Frenetico pressing sulla diplomazia europea.

May ha fatto appello al dialogo con Bruxelles per rivedere le condizioni di divorzio dall'Ue raggiunte a novembre, impegnandosi in un frenetico tour nelle cancellerie di mezza Europa e ottenendo disponibilità da parte dei leader europei. Ma è evidente che l'accordo non può essere riaperto e rinegoziato nella sostanza. Così, lo scoglio parlamentare si è fatto più insormontabile e la Brexit ancora più in bilico.
Sempre più cruciale il ruolo del Parlamento.
Uno snodo decisivo è stato inferto qualche giorno fa da John Bercow, speaker della Camera dei Comuni, alla ripresa del dibattito in Aula. Secondo una sua interpretazione delle regole di voto, infatti, è stato messo fra gli emendamenti alle mozioni approvate anche quello che riconosce al Parlamento il potere di chiedere al governo un «piano B», in caso di rigetto dell'intesa attuale (un'alternativa da presentare entro tre giorni lavorativi). Tutto questo per evitare un salto nel buio senza accordo. Ma è tutto da vedere.

Almeno tre gli scenari possibili.

La premier britannica ha escluso il ricorso a un secondo referendum - rischierebbe di spezzare di nuovo in due il Paese – ma, se sconfitta, sarà costretta alla resa dei conti. Così, si aprono almeno tre opzioni.
La prima: May resta in carica e deve presentare un nuovo piano. Il secondo scenario contempla la possibilità che l'opposizione ponga la fiducia sul governo per andare a nuove elezioni. Ma, in caso di insuccesso, molti pensano che il leader laburista Jeremy Corbyn potrebbe anche giocarsi la carta di tentare di indire un nuovo referendum.
Una terza soluzione, sempre più probabile, è la richiesta formale all'Ue di una dilazione: in pratica, uno slittamento dell'uscita fissata al 29 marzo, visto che non ci sarebbero i tempi tecnici per fare tutto entro marzo. Magari per virare verso un nuovo modello di uscita dall'Ue, come per esempio quello norvegese, accantonato in un primo tempo perché prevede la permanenza del Regno Unito nel mercato unico.
In alternativa, resta la possibilità di una Brexit senza accordo. Ma, quasi due anni dopo il referendum, i britannici hanno preso consapevolezza che questa farebbe male (soprattutto economicamente) più a Londra che a Bruxelles.

Trattativa incagliata sulla "questione irlandese".

Eppure, il negoziato aveva superato due punti chiave. Il primo sul “costo del divorzio” addebitato a Londra: si stima che, fra impegni presi con Bruxelles dopo quasi mezzo secolo di Unione, copertura delle pensioni degli ex funzionari europei di nazionalità britannica e altre spese, il conto per le casse del Regno Unito si aggirerebbe sui 50 miliardi di euro. Soldi da versare, per lo più, fra il 2019 e il 2025 (anche se l'ultima scadenza porterebbe al 2064).
Il secondo, non meno cruciale, sulla libera circolazione delle persone per riconoscere lo status e i diritti di almeno quattro milioni di cittadini: tre milioni di europei residenti su suolo britannico e un milione di inglesi che vive in uno degli altri 27 Paesi Ue. Dopo il 29 marzo, invece, scatterebbe una transizione per bloccare altri arrivi almeno fino al 2020 e dar vita a una diversa gestione dei movimenti.
Irrisolta, invece, la questione del confine irlandese: la Brexit provocherebbe un ripristino di un effettivo confine fra la Repubblica d'Irlanda e l'Irlanda del Nord, con migliaia di cittadini costretti a varcare una frontiera fisica nella loro vita quotidiana. Ma l'ipotesi alternativa di una garanzia - il cosiddetto "backstop" - per mantenerla aperta è stata scartata: quei 360 chilometri di terra non possono essere il "cavallo di Troia" per un facile ingresso di merci agricole e prodotti non conformi alle norme europee. E proprio su questo si è innescata la crisi che ha portato fino a qui.

I giudici europei lasciano aperta la porta della revoca

L'ultima via potrebbe venire dal pronunciamento della Corte di giustizia europea sull'interpretazione dell'ormai famigerato “articolo 50” del Trattato, attuato per la prima volta nell'Ue in seguito al referendum del Regno Unito del 23 giugno 2016. I giudici di Lussemburgo hanno chiarito che, finché l'uscita non è avvenuta, Londra ha il diritto di revocarla anche unilateralmente, ovvero senza il consenso degli altri 27 Paesi europei. Una sentenza che riapre perfino la possibilità del ritiro della richiesta di Brexit avvenuta con la consegna della lettera di addio il 29 marzo 2017.

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Anna Maria Angelone