Chi sono gli attentatori di Boston (e cosa succede negli Usa)
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Chi sono gli attentatori di Boston (e cosa succede negli Usa)

Mentre continua la caccia all'uomo un'immagine mostra la piccola vittima di Boston con il suo assassino (e la bomba) - le immagini della caccia all'uomo - la cronaca di queste ore - lookOut News -

Due ragazzi giovani, bianchi, di origine cecena, da più di un anno negli Stati Uniti, fratelli legati al mondo islamico. Sarebbero loro gli attentatori della maratona di Boston. Ancora presunti, certo. Ma dopo la sparatoria al Massachusetts Institute of Technology (MIT) di Cambridge che ha còlto in flagrante i sospetti mentre tentavano di fuggire (mentre scriviamo, uno di loro è morto mentre il secondo è ancora in fuga) le prove indiziarie diventano schiaccianti e consentono di supporre che sono loro i colpevoli dell’attentato che ha sconvolto l’America lunedì pomeriggio. Quantomeno sono i sospettati numero uno, visto che hanno già ucciso una guardia giurata al MIT - forse per rubare una macchina, forse per piazzare una nuova bomba - e poi reagito alla polizia con un pesante scontro a fuoco e nuovi ordigni lanciati contro gli agenti.

In base a quanto detto, sulla vicenda si possono fare le seguenti affermazioni: che è lecito presumere, come già abbiamo sostenuto in precedenza, che ci troviamo di fronte al classico caso di “homegrown terrorists”, cioè quello di terroristi nati e cresciuti o quantomeno integrati negli Stati Uniti. Che la vicenda si può inquadrare all’interno delle dinamiche politiche che hanno determinato la bocciatura della legge sulle armi, respinta l’altro ieri dal Senato americano. Che l’FBI, il Federal Bureau of Investigation, non è in grado di prevenire questi accadimenti ma è incredibilmente efficace nello svolgere le indagini.

Perché homegrown terrorists?

Palestrati, bianchi, non più di venticinque anni, vestiti casual e con indosso il tipico cappellino alla Babe Ruth (come vuole migliore tradizione americana), i due sospetti sembrano incarnare il profilo di decine di loro coetanei che già abbiamo visto all’opera in lucide giornate di follia, dalla strage di Columbine nell’aprile del 1999 (il diciottenne Eric Harris e il diciassettenne Dylan Klebold uccisero 12 compagni di scuola e un insegnante prima di suicidarsi) fino alle stragi di Aurora, in Colorado (luglio 2012 durante la prima del film Batman, un giovane uccide 12 persone al cinema) e a Newtown, in Connecticut, quando a dicembre 2012 il ventenne Adam Lanza apre il fuoco in una scuola elementare, uccidendo 20 bambini e sei insegnanti, prima di suicidarsi. Segno che qualcosa, nella società americana, non funziona bene e le inquietudini delle nuove generazioni non trovano un equilibrio nel rapporto con le armi e la violenza. Indipendentemente dal fatto che i due siano cani sciolti o siano stati armati da qualcun’altro. E, in fin dei conti, non si tratta solo nella società americana, visto che somigliano tanto a quel trentenne norvegese Anders Breivik, l’estremista di destra che a Utoya ha fatto una strage con fucili e bombe, in nome di un delirio massonico-nazista-antislamista.

Perché la relazione con la legge sulle armi?

La strage di Newtown è stata la svolta che ha convinto il presidente Barack Obama a dire “basta” all’acquisto e alla detenzione di armi da fuoco senza alcun tipo di controllo preventivo. Ma la National Rifle Association, la potente lobby delle armi da fuoco americana, così come la Gun owners of America, una delle più attive associazioni di possessori di armi da fuoco, e molte altre hanno subito contrattaccato, sostenendo addirittura che “se i maestri di scuola avessero avuto le armi, non vi sarebbe stata alcuna strage”. Obama è andato dritto per la sua strada e ha portato la riforma al Senato, grazie a un accordo con numerosi senatori repubblicani che, però, dopo la strage e le lettere al veleno inviate alle loro segreterie, hanno fatto marcia indietro e affossato la legge. Il presidente USA, furibondo, ha quindi affermato: “Questo è un giorno vergognoso per l’America ma noi andiamo avanti e, prima o poi, otterremo questo diritto”.

Ora, gli Stati Uniti non sono figli della strategia della tensione e quindi non sono inclini a cercare retroscena politici, specie di politica interna, negli eventi terroristici. Però, non si può non notare che nel giorno in cui l’America si è sentita più insicura, dopo essere stata colpita a Boston, il Senato ha respinto la legge con la quale Obama voleva ridurre il “diritto all’autodifesa” dei cittadini americani. Non sempre, post hoc ergo propter hoc, ma è comunque certo che il clima che si è creato negli Stati Uniti dopo gli attentati non è favorevole alle colombe e rende più facile la campagna di comunicazione della potentissima lobby delle armi.

Le indagini dell’FBI

Da quando negli anni Trenta J. Edgar Hoover è entrato nell’FBI, le indagini del Bureau si sono fatte progressivamente sempre più scientifiche e sofisticate. Certo, gli investigatori federali non hanno risolto tutti i numerosi misteri della storia contemporanea USA ma, grazie alle loro ricerche, hanno reso sempre più accurato e preciso il sistema investigativo. Che ha fatto scuola nel mondo e prodotto eccellenti risultati. L’unica falla resta la prevenzione, perché l’FBI non agisce come un servizio di sicurezza interno ma piuttosto come forza di polizia federale. E, in quanto tale, può svolgere indagini preventive solo sulla base di una notitia criminis o del sospetto, documentato, della preparazione di un’operazione criminale.
Insomma, l’America oggi si guarda allo specchio e si scopre sempre più vittima delle sue stesse regole e dei suoi inalienabili diritti: i cittadini americani hanno ragione di sostenere il diritto ad armarsi, ma lo stesso gli si rivolta contro sempre più spesso, generando una scia di sangue sempre più lunga e incontrollata. I cittadini hanno il diritto a non essere indagati o spiati, ma questo limita le capacità preventive delle forze investigative. Potrà Barack Obama risolvere questa silenziosa guerra interna, che è forse più importante di tutte le altre guerre che gli USA combattono nel mondo in nome della democrazia?

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Luciano Tirinnanzi