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Com'è facile arruolarsi nell'Isis dal web

Il reclutamento dei "soldati del Califfato" online è la norma. Perché, come mostra Panorama, per finire nei siti di progaganda jihadista servono tre minuti

"Google è il primo reclutatore dell'Isis . Ma è il web, bellezza. E tu non puoi farci niente. Niente". L'investigatore dell'antiterrorismo che cita, parafrasandolo, Humphrey Bogart nel film L'ultima minaccia, vuole restare anonimo. Perché il quadro che emerge viaggiando con lui sulla Rete a caccia dei predicatori del jihad non è rassicurante.

È appena arrivata la notizia che Paterson Sayfullo Saipov, il 29enne uzbeko autore della strage della pista ciclabile di Manhattan, lo scorso 1 novembre, in cui sono morte otto persone, si è radicalizzato con internet.

L'esperto ha accettato di fare una prova con Panorama: quanto s'impiega, partendo da qualsiasi motore di ricerca tra quelli più in uso, a finire in un sito di propaganda jihadista inneggiante al martirio? Tutte le più recenti indagini sui terroristi responsabili degli attacchi in Europa, hanno svelato che l'indottrinamento dei cosiddetti lupi solitari (che solitari lo sono sempre meno) è sempre avvenuto per via digitale.

I figli della Rete

Lo racconta anche Valeria Collina, la madre di Youssef Zaghba, 22 anni, uno dei tre terroristi che, il 4 giugno scorso, dopo aver investito i passanti con un furgone sul London Bridge, sono scesi a "finire il lavoro" con i coltelli tagliando la gola a chi capitava a tiro. La donna, italiana convertita all'Islam, nel libro In nome di chi (di Valeria Collina, Rizzoli), racconta come nel 2015 si accorse che il figlio Youssef avesse la bandiera dell'Isis e video di propaganda su Facebook; e descrive la disarmante banalità del "primo passo": "Ragazzi modello che si presentano puntuali a condividere con voi ogni pasto. Magari dopo aver messo in pausa l'ultimo video di un ostaggio sgozzato o di un blindato che viene fatto saltare in aria da un attentatore suicida".

E noi, sappiamo dove vanno a finire i nostri figli quando navigano su Internet? I lupi solitari non conoscono il Corano, spesso non frequentano le moschee e non sono inseriti nelle comunità religiose di riferimento, talvolta non conoscono che poche parole di arabo. Spiega ancora la madre di Youssef: "Se quei ragazzi finiscono nella rete dei predicatori dell'odio, forse è perché non hanno trovato ascolto da altre parti. Perché si sono sempre appoggiati a internet per trovare le risposte di cui avevano bisogno. Perché le moschee, come luogo fisico, hanno orari più stretti rispetto all'apertura illimitata dei social e non usano un linguaggio immediato come quello del web".

Lo Stato islamico ha da subito compreso l'importanza della comunicazione. E quale miglior veicolo della Rete? Nel Corano la comunità dei credenti, chiamata umma, è intesa come comunità universale, come nazione araba, senza confini territoriali. Proprio come il web, universale e senza frontiere. E non si pensi che per trovare i sermoni che invitano a uccidere gli infedeli si debba ricorrere al "deep web": quello che rappresenta il 90 per cento del mondo digitale accessibile esclusivamente a chi conosce la mappa per districarsi tra url occulti, ossia non indicizzati nei motori di ricerca e raggiungibili solo se si digita un preciso indirizzo. "Tutto questo si trova sul cosiddetto "clear web"" spiega l'investigatore a Panorama "passando attraverso porte sempre aperte e valicabili da chiunque, per esempio attraverso i motori di ricerca o i siti più utilizzati nel mondo: Google, Yahoo, Youtube". Messaggi incontrollati e incontrollabili.

Eccoci quindi all'esperimento.

Sono bastati tre minuti di orologio, partendo da Google e digitando semplicemente Isiso il suo sinonimo, "Daesh",o "allahu akbar" per navigare sui siti di propaganda jihadista che mostrano le immagini più raccapriccianti o persuasive per il lavaggio del cervello dei lupi solitari.

A cominciare dalla rivista ufficiale dell'Isis, Rumiyah. Dove, per esempio, si spiega perché colpire i bambini non è sbagliato. O alle edizioni del periodico di Al Queda, Dabiq, o ancora al filmati di decapitazioni non censurate, fotomontaggi professionali con il Colosseo in fiamme o bombardamenti di San Pietro e tante azioni di battaglia, con un utilizzo raffinato di effetti speciali e traduzioni in varie lingue. Sempre accompagnate da un epico sottofondo musicale oppure, per accattivarsii giovanissimi, con musiche da discoteca, house, dance o progressive. Esiste persino un dj Daesh.

Ascoltandolo si viene rimbalzati tra compilation di suoni ipnotizzanti e immagini delle Torri Gemelle in fiamme o miliziani Isis in azione, mentre Dj Deso Dogg fa propaganda a ritmo di rap. Facile ascoltare l'inno ufficiale dell'Isis, My Ummah, dawn has appeared, anche in italiano o remixato in versione disco. Si possono seguire le trasmissioni di Khilafa Live, canale internet del califfato, o navigare su Al Furqan Media, in pratica l'ufficio comunicazione dell'Isis.

Un mondo di violenza a portata di click, e per accedervi non serve nemmeno conoscere l'arabo. Con il cursore si copia l'indirizzo o il nickname di chi ha messo dei like ai video più espliciti, o si copia la scritta in arabo nella stringa di ricerca e il gioco è fatto. In molti casi i dialoghi e i testi che accompagnano i filmati di eroiche battaglie dell'Isis sono in arabo, ma ci sono anche molti filmati in inglese.

Per chi vuole fare sul serio, c'è poi la rivista Inspire che, una volta spiegato come costruire bombe artigianali, nell'ultimo numero, insegna come far deragliare un treno. Abbiamo anche provato a segnalare il sito al provider (a volte capita di imbattersi in un video censurato su cui appare la scritta: "Questo video è stato rimosso per aver violato i termini di servizio di Youtube"), sapendo però che, anche se un contenuto è stato cancellato una volta, qualcuno lo avrà già scaricato e postato altrove.

È disarmante verificare che chiunque può postare qualsiasi cosa senza essere né rintracciato né perseguito. Mancano interventi legislativi ad hoc, manca il personale per un controllo che dovrebbe essere quasi di massa, non c'è alcuna attività investigativa sotto copertura, non è nemmeno facile perseguire penalmente chi scambia contenuti inneggianti al terrorismo. Se si tratta di un cittadino italiano non si può procedere all'espulsione (solo 218 i presunti estremisti espulsi dal 2015 a oggi).

Ma qualcosa sta cambiando.

Il 20 ottobre scorso, a Ischia, si sono riuniti i ministri degli Interni dei Paesi del G7. Sul tavolo, tra i temi, l'attivazione di un database globale e condiviso che, grazie ad algoritmi, possa bloccare video, foto e audio a sostegno del terrorismo islamico. Al vertice hanno partecipato anche i delegati dei padroni assoluti del web: Google, Facebook, Microsoft e Twitter, accusati in passato di indifferenza e di saper lucrare solo su ogni click. Il proposito è attivare un sistema di filtraggio che riconosca automaticamente i contenuti jihadisti e li blocchi sul nascere, prosciugando così la sorgente digitale dell'odio.

Un grande passo avanti, che ha funzionato nel contrasto alla pedopornografia. Per la "web jihad", però, le cose sono più complicate. Lo spiega Marco Lombardi, docente all'università Cattolica di Milano e direttore di "ItsTime, Italian team for security", centro di ricerca sul terrorismo.

I suoi collaboratori monitorano giorno e notte la Rete per intercettare le minacce in arrivo dal terrorismo islamico. Lombardi, che collabora con il Viminale per arginare il fenomeno, non è ottimista: "Quella sul web è un po' una battaglia persa. È illusorio pensare che basti mettere al bando tutti i video delle decapitazioni di Daesh per risolvere il problema della radicalizzazione. Facile intercettare la foto di un corpo decapitato, meno facile, per un software, anche avanzato, accorgersi e bloccare un documento come What are you waiting for, il primo filmato in lingua francese, nonostante il titolo in inglese, dove tre giovani francesi che invitano i loro coetanei ad unirsi a loro per combattere".

Riflette ancora Lombardi: "Certo che limitare la circolazione e il reperimento delle immagini violente può comunque permettere di salvare i ragazzi più giovani che accedono a questo processo per la prima volta". Questo per quanto riguarda la Rete "aperta". Tutto altro discorso per le chat: private, crittate, non intercettabili. Praticamente irraggiungibili. Perché questo è il web, e noi non possiamo farci (quasi) niente.

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Giorgio Sturlese Tosi

Giornalista. Fiorentino trapiantato a Milano, studi in Giurisprudenza, ex  poliziotto, ex pugile dilettante. Ho collaborato con varie testate (Panorama,  Mediaset, L'Espresso, QN) e scritto due libri per la Rizzoli ("Una vita da  infiltrato" e "In difesa della giustizia", con Piero Luigi Vigna). Nel 2006 mi  hanno assegnato il Premio cronista dell'anno.

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