Togliamo Falcone dalla campagna elettorale
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Togliamo Falcone dalla campagna elettorale

I battibecchi tra Ingroia, la Boccassini e la sorella del magistrato ucciso a Capaci sono davvero troppo

È orribile questo gossip dei morti che infanga la campagna elettorale. Questa disinvoltura cinica per la quale diventa protagonista del confronto politico attuale un uomo, un vero eroe della guerra contro la mafia, ucciso assieme a sua moglie e alla sua scorta ventuno anni fa.

Giovanni Falcone aveva da poco compiuto 53 anni il 23 maggio 1992, il giorno della strage di Capaci, oggi ne avrebbe 74. Eppure il suo nome è tuttora evocato a sproposito come argomento di competizione elettorale da un magistrato che non ha niente a che vedere con la sua storia, che rappresenta semmai ciò a cui nella magistratura Falcone si era sempre opposto, l’uso politico della giustizia, e contro cui aveva combattuto, sofferto, per cui era rimasto isolato.

Antonio Ingroia, leader di Rivoluzione civile, ha paragonato le critiche dei colleghi per la sua scesa in campo a quelle inflitte dal Consiglio superiore della magistratura a Falcone. E Ilda Boccassini, che più volte ha attaccato quanti nella magistratura o nella politica avevano elogiato e usato Falcone da morto essendo però gli stessi che lo avevano attaccato e delegittimato da vivo, è insorta perché, ha detto, “è una vergogna che un giudice piccolo come Ingroia osi paragonarsi a Falcone, tra loro c’è una distanza di milioni di anni luce”. La sorella di Falcone, Maria, pure lei ha dichiarato: “Non permetto a nessuno di parlare di Giovanni per autopromuoversi a livello politico”.

Ingroia, invece di tacere, ha risposto a entrambe. “La Boccassini conti fino a tre prima di aprire bocca, alle sue piccinerie siamo abituati da anni, mi basta sapere cosa pensava di me Borsellino e cosa pensava di lei”. E a Maria Falcone: “Io non ho mai usato il nome di Giovanni Falcone per i voti. Lei invece sì, quando si candidò per prendere il seggio al Parlamento e non venne neppure eletta”.

Così Antonio Ingroia, pm in aspettativa che si candida a Palermo dove ha esercitato le funzioni fino a pochi mesi fa, dopo aver citato Falcone insinua che Borsellino, ucciso dalla mafia subito dopo l’amico e collega, giudicasse male della Boccassini. Un altro eroe morto, resuscitato per fini politici in questa miserabile campagna elettorale.
Ma per capire quanto il ricordo di Falcone sia lontano dalle cadute di stile di Ingroia, basterebbe rammentare che uno dei più ostinati accusatori di Falcone, che gli imputò addirittura di tenere nel cassetto carte decisive per incriminare i politici nei processi di mafia, che lo criticò pubblicamente e presentò contro di lui un esposto al Csm fu (meglio, è) l’alleato di Ingroia e sindaco di Palermo, Leoluca Orlando. Accuse alle quali Falcone ribatté definendole “eresie, insinuazioni… un modo di far politica attraverso il sistema giudiziario”, e dicendo davanti al Csm: “Non si può investire nella cultura del sospetto tutto e tutti. La cultura del sospetto non è l’anticamera della verità, è l’anticamera del khomeinismo”. Nell’ intervista a Marcelle Padovani poco prima di morire, Falcone disse: “Si muore generalmente perché si è soli… perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno”. E Orlando non lo aveva sostenuto, anzi, e Orlando oggi è compagno di cordata di Ingroia.
Dopo la morte di Falcone, la Boccassini puntò l’indice contro le toghe più rosse del Csm, quelle di Magistratura Democratica, lei che non può certo esser considerata di destra. Accusò Gherardo Colombo di aver diffidato di Falcone ma esser poi andato al suo funerali. È agli atti l’articolo sull’Unità di un componente laico del Csm designato dal Pci, Alessandro Pizzorusso, per il quale Falcone aveva perso la sua affidabilità e indipendenza essendo andato a Roma a lavorare con Claudio Martelli al ministero della Giustizia. Anche dopo la strage di Capaci, Orlando dichiarò di non essersi pentito riguardo a quelle critiche.
La “colpa” di Falcone era stata quella di aver voluto verificare la veridicità delle parole dei pentiti sui politici, averle trovate carenti e quindi non aver trascinato i democristiani alla sbarra. Al contrario dei suoi successori, che hanno imbastito processi politici incapaci di reggere al vaglio dei gradi più alti di giudizio. No, per favore. Evocare Falcone facendone uno sponsor elettorale 21 anni dopo la sua morte, no. Attingere al gossip dei morti per difendersi dalle critiche, no. Paragonarsi, anche solo in parte, a un eroe della guerra alla mafia come Giovanni Falcone, no e poi no.

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Marco Ventura

Inviato di guerra e cronista parlamentare de Il Giornale, poi  collaboratore de La Stampa, Epoca, Il Secolo XIX, Radio Radicale, Mediaset e La7, responsabile di uffici stampa istituzionali e autore di  una decina fra saggi e romanzi. L’ultimo  "Hina, questa è la mia vita".  Da "Il Campione e il Bandito" è stata tratta la miniserie con Beppe Fiorello per la Rai vincitrice dell’Oscar Tv 2010 per la migliore  fiction televisiva. Ora è autore di "Virus", trasmissione di Rai 2

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