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Abbasso i cuochi d'artificio

Chef Rubio & compagni... E' insopportabile l'esaltazione della cucina come filosofia ed etica

Ma lo chef Rubio, di grazia, quand’è che fa lo chef? L’ha mai fatto? Lo sa fare? Perché non dimostra le sue doti dietro i fornelli, ammesso che ne sia capace? Perché, invece, continua a mettere in forno soltanto dichiarazioni violente? Perché non fa altro che friggere polemiche politiche e rosolare gli zebedei altrui, con polemiche oggettivamente inaccettabili?  Il personaggio è incredibile: si chiama, in realtà, Gabriele Rubini e nella sua vita non ha mai aperto un ristorante, né una trattoria, neppure un’osteria. Niente di niente. Mai provato cosa vuol dire preparare una pastasciutta al sugo da servire ai clienti. Però è bravissimo a servire la polemica del giorno: appena vede uno spazio, ci si butta e attacca. Contro Salvini, contro la Lega, contro i poliziotti uccisi a Trieste, contro Israele, contro Selvaggia Lucarelli, contro chiunque possa dargli, a contrasto, un minimo di visibilità. Lui è fatto così: un vero e proprio cuoco d’artificio.

Insopportabile, come tutti i cuochi d’artificio. Che sono sempre di più. E sempre più urticanti. Ma sì, diciamolo: non se ne può più di questi spadellatori mediatici che si ergono a nuovi maître à penser, guru del pensiero, filosofi della politica, sociologi, psicologi, ideologi, moralisti, soloni, intellettuali, punti di riferimento dell’etica e della società. Ormai incapaci di stare in cucina perché sono troppo abituati a stare in cattedra: si sentono in dovere di darci lezioni su ogni cosa, in virtù del fatto che nella loro vita sono riusciti a impiattare due uova come si deve o un risotto particolare. Ammesso che l’abbiano fatto davvero e non siano passati direttamente, come nel caso di Chef Rubio, dal campo di rugby alla popolarità mediatica. Senza mai fare davvero la prova del cuoco.

Lo diciamo con l’amaro in bocca, nonostante la gran quantità di leccornie che passano sotto i nostri occhi nei vari programmi tv, colpevoli fra l’altro proprio di aver creato questi mostri sacri del pensiero culinario. Anzi, forse lo diciamo con l’amaro in bocca proprio per quello: non se ne può più dei filosofia del pentolone, dell’ermeneutica alla cipolla di  Tropea, soffritto presocratico con spruzzata di Heidegger al mirtillo rosa. Non se ne può più di cuochi che si sentono intellettuali, che si comportano da intellettuali, che vengono considerati intellettuali. Che usano la popolarità regalata loro dai programmi tv per ergersi a guide politiche e spirituali. E spargono sentenze in ogni dove, anziché spargere, come dovrebbero, soltanto il cacio sui maccheroni.

Non se ne può più di quelli del bollito/non bollito come filosofia di vita. Non se ne può più del Vate del raviolo. Non se ne può più della cucina  che si trasforma in «filosofia concettuale». Non se ne può più dell’estetica dei fornelli, del «dovere dell’etica che obbliga noi chef a trasmettere valori». Non se ne può più degli chef che salgono in cattedra ad Harvard, che vengono indicati come «più importanti ideologi italiani» (Massimo Bottura, copyright Vittorio Sgarbi), che si sentono parte «di un gruppo di scienziati che guardano al cibo da un nuovo punto di vista» (Heston Blumenthal). Non se ne può più degli gnocchi molecolari, dell’azoto liquido in tavola, del menù Autoritratto che trasforma in un’opera d’arte il pomodoro essiccato con rugiada di aceto di riso (Quique Dacosta). Non se ne può più di questi «percorsi sensoriali» che dicono di volerti far provare emozioni, salvo poi scoprire che l’emozione principale è quando arriva il conto.

«Dio fece il cibo, il diavolo i cuochi», disse James Joyce. Eppure non aveva ancora conosciuto la sferificazione delle fragole e la frantumazione dei marroni, due pratiche su cui i nuovi guru si sono invece assai esercitati negli ultimi tempi, prima trasformando la loro esperienza ai fornelli in una missione magico-esoterica e poi esondando in tutti i campi della vita con la prosopopea di chi pensa di avere in mano sempre la ricetta giusta. Ma non è così. La vita è diversa dalla tempura di verdure miste e dal gambero viola in zuppa di grano saraceno. Magari questi cuochi d’artificio hanno davvero la ricetta giusta per estasiare il nostro palato: ma allora lo dimostrino dedicando un po’ di più di tempo al loro ristorante e un po’ di meno ai social e alla Tv. Ci guadagneremmo tutti. A cominciare dal nostro stomaco.

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Mario Giordano

(Alessandria, 1966). Ha incominciato a denunciare scandali all'inizio della sua carriera (il primo libro s'intitolava Silenzio, si ruba) e non s'è ancora stancato. Purtroppo neppure gli altri si sono stancati di rubare. Ha diretto Studio Aperto, Il Giornale, l'all news di Mediaset Tgcom24 e ora il Tg4. Sposato, ha quattro figli che sono il miglior allenamento per questo giornale. Infatti ogni sera gli dicono: «Papà, dicci la verità». Provate voi a mentire.

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