N.E.R.D. "No one ever really dies" è l'ultimo grande album del 2017 - Recensione
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N.E.R.D. "No one ever really dies" è l'ultimo grande album del 2017 - Recensione

Il quinto disco del side project di Pharrell Williams, con ospiti Kendrick Lamar, Rihanna e Ed Sheeran, è ricco di urgenza politica

Diavolo di un Pharrell Williams.

Mentre tutti i giornalisti musicali hanno già mandato in stampa o pubblicato online le liste dei migliori album del 2017, il Re Mida del pop/funk se ne esce il 15 dicembre con un disco sorprendente come No one ever really dies, il quinto del side project N.E.R.D. insieme ai sodali Chad Hugo e Shay Haley, che ci costringe a rivedere la graduatoria di fine anno.

Ricco, stratificato, febbrile, nervoso e politico: così potremmo descrivere No one ever really dies(l'acronimo del nome del gruppo n.d.r.), pubblicato dalla Columbia Records a sette anni di distanza da Nothing del 2010.

Impressionante la lista degli ospiti, che comprende il nuovo re del rap Kendrick Lamar (in due brani), le popstar Rihanna e Ed Sheeran, Andre 3000 degli Outkast, il mai troppo lodato Frank Ocean, Future, Gucci Mane e M.I.A.

Scordatevi la gioiosa levità del soul sixities di Happy o l'accattivante disco-revival di Get Lucky insieme ai Daft Punk: le atmosfere dell'album sono cupe, i ritmi spezzati e obliqui, le canzoni, che hanno interessanti sviluppi strumentali, non strizzano l'occhio al pubblico radiofonico, né, tantomeno, all'ascolto fast food di pochi secondi in streaming.

No one ever really dies necessita di più ascolti per essere apprezzato in pieno, ma è evidente che siamo di fronte a un disco elaborato e "vero", non un riempitivo della febbrile attività di Williams, tra il lancio del liquore Pharrell Williams’ Qream e le nuove sneakers disegnate per Adidas e Chanel.

Il nuovo progetto è stato anticipato da Lemon, brano energico e rap-oriented, supportato da una dance challenge che ha spopolato su tutti i social, dove Pharrell duetta con Rihanna, sorprendentemente a suo agio nello snocciolare barre rap: chissà che in futuro non possa sfidare Cardi B e Nicki Minaj sul loro stesso territorio.

Nel video del secondo singolo 1000, con il "trappista" Future, compare all’inizio un disclaimer che è quasi una dichiarazione programmatica: “I N.E.R.D e la Columbia Records non supportano alcuna forma di violenza. Abbiamo solo l’accesso Internet”.

Le immagini di accese manifestazioni di protesta in giro per il mondo parlano da sole, mentre la musica, piatta e ripetitiva, qui strizza l'occhio alle sonorità più in voga del momento e al pubblico più giovane.

Don’t Don’t Do It!, il fulcro tematico dell'album, inizia come una bossa nova 4.0, dolce nella musica quanto forte nel testo sull'assassinio di Keith Lamont Scott da parte della polizia nel 2016.

"Abbiamo quel pazzo nella stanza dei bottoni (Trump, ndr) e la polizia che spara a cittadini di colore disarmati -ha dichiarato Williams- Ho nascosto questa storia sotto una veste così gioiosa perché volevo essere sicuro che nessuno si lasciasse sfuggire il messaggio".

Frank Ocean e Kendrick Lamar si confermano due fuoriclasse della musica black contemporanea, dando un contributo decisivo a una delle canzoni migliori dell'album.

Un altro vertice di No one ever really dies è, a nostro parere, la strepitosa In deep down booty thurst, con la voce di Pharrell e un pianoforte ostinato in primo piano, fino all'esplosione ritmica del refrain, con indiavolate chitarre in levare alla Clash.

Anche Kites è un gran pezzo, con un coro di sapore gospel campionato sopra ipnotici suoni sintetici e continui cambi di ritmo, impreziosito da un rap da antologia di Kendrick Lamar, sempre preciso e profondo nelle sue rime.

Rollinem 7's è uno stralunato brano tutto da ballare, con bizzarri inserti drum 'n' bass e voci campionate in loop, che ha il suo acme nel rap di Andre 3.000 degli Outkast, uno dei migliori gruppi hip hop degli ultimi 20 anni.

Gran finale con la reggaeggiante Lifting you, dove Ed Sheeran mostra tutta la versatilità della sua voce.

Spesso Pharrell Williams è stato criticato per essere troppo simile a sé stesso, soprattutto nelle intro dei brani, con quattro beat ripetuti prima di entrare nel vivo della melodia.

In No one ever really dies, il cantante e produttore fa un salto in avanti e spariglia le carte, con 11 brani collegati musicalmente l'uno con l'altro per un ascolto continuativo dall'inzio alla fine, in controtendenza con gli album-playlist, in cui ogni brano è una storia a sè.

L'album è un lavoro solido e coeso, pur nella sua varietà di stili e di atmosfere, una perfetta strenna natalizia da regalare agli amanti della musica black di qualità.

Rick Diamond/Getty Images for Coors Light
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Gabriele Antonucci