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Quel che resta di Lucano

Quel che resta di Lucano

La raccolta dell’immondizia con gli asinelli, finita. Le botteghe gestite dai migranti, chiuse. Il paese cerca di arrangiarsi, come sempre, tra disoccupazione e spopolamento. All’indomani della sentenza di condanna per l’ex sindaco, siamo tornati a Riace. Ed ecco quello che si scopre dei progetti in cui l’intervento pubblico è stato inquinato da interessi privati.


Le case del borgo vecchio, quelle lasciate dagli emigranti, che a Riace sono più o meno quanto i cittadini che hanno deciso di restare, sono di nuovo vuote. Il piccolo centro della Locride, di colpo, sembra essere tornato indietro al 1998, anno degli sbarchi dei profughi curdi, ovvero al momento in cui a Mimmo Lucano, eletto per la prima volta sindaco, saltò in mente di puntare tutto sui migranti.

Sembrava un’intuizione geniale: riempire le case abbandonate dagli emigranti con i migranti, in una realtà che non conta neppure duemila abitanti. «Ma era tutto un bluff», dice davanti al bar del paese un vecchietto che da un pacchetto verde tira fuori, una dietro l’altra, sigarette senza filtro. I baffi e le dita ingialliti dal fumo. L’aspetto è di chi ne ha viste tante. «Le botteghe sono chiuse e gli asini sono tornati nella stalla di Biase». Cioè Biagio, un cinquantenne che ha passato la vita a spaccarsi la schiena con piccoli lavoretti in campagna e al servizio dei proprietari terrieri, è uno dei tanti che qui aveva creduto nei sogni che propagandava Mimmo Lucano ed era diventato il capo di una coop di migranti che con gli asinelli raccoglieva i rifiuti nei vicoli del borgo vecchio, difficilissimi da raggiungere con qualsiasi mezzo a motore.

L’affidamento diretto fatto alla coop, però, è finito nell’indagine che ha stroncato Lucano e i suoi accoliti. Perché, anche se l’idea era brillante, le leggi bisogna rispettarle, pure a Riace. Cosa che a Mimmo deve essere uscita di mente, preso com’era a fondare associazioni e cooperative che servivano, per dirla come i magistrati che hanno imbastito il procedimento giudiziario, «per il suo tornaconto elettorale». Clientelismo, insomma.

La condanna giudiziaria di primo grado a 13 anni e 2 mesi, però, per quanto pesante, a Riace sembra pesare meno del fallimento del suo progetto che, senza i milionari flussi di denaro pubblico, si è dimostrato subito insostenibile. Tutte le fantastiche iniziative che aveva organizzato si sono alla fine rivelate macchine mangiasoldi o attrazioni turistiche. Il borgo-albergo per accogliere i turisti solidali che avrebbero dovuto partecipare all’accoglienza – 100 posti letto nelle case abbandonate e ristrutturate, realizzato con un mutuo da 51 mila euro erogato da Banca Etica – non è mai decollato.

Il frantoio di comunità, nel quale dovevano lavorare italiani e migranti, ha funzionato solo per la raccolta del 2019. È stato tirato su con i fondi destinati all’accoglienza del 2016 e del 2017. Lucano e Fernando Antonio Capone, presidente dell’associazione Città futura, stando agli atti dell’inchiesta erano «pienamente consapevoli» di aver messo in atto «una distrazione di fondi». E nelle chiacchierate telefoniche che precedono il 5 ottobre 2017, giorno in cui i due sono venuti ufficialmente a conoscenza dell’esistenza dell’inchiesta, è emersa «la volontà del Lucano di arricchire il patrimonio dell’associazione» e l’idea di Capone, in caso di chiusura di Città futura, «di appropriarsi, in quanto presidente del sodalizio, proprio del frantoio».

D’altra parte lo stesso ex-sindaco l’aveva previsto. E in una telefonata intercettata aveva detto all’amico: «Alla fine dei conti è stata una pazzia questo frantoio, in tutti i sensi». Come tutti gli altri progetti. È stato ancora una volta Lucano a spiegarlo nelle varie chiacchierate intercettate: «Di Riace al frantoio non viene nessuno per fare proprio niente, perché sono delle attività legate non a un futuro […] sono in funzione di questa, questa attività legata anche ai laboratori. Ma mica il laboratorio si mantiene? Con che cosa? Con niente si mantiene, deve chiudere perché la tessitura artigianale, per esempio, che tu vai a lavorare là, mica è un’attività, perché un tappeto dai cinesi viene a 5 euro, per fare un tappeto là nel telaio… ma chi è che campava con queste cose? Parliamoci chiaro».

E infatti, anche il laboratorio per la lavorazione della fibra della ginestra, pianta che cresce abbondante sui costoni che portano al paese, occupazione prevista per le profughe, ha chiuso i battenti. Le botteghe della ceramica: chiuse. Erano ciò che i magistrati hanno definito «uno specchietto per le allodole». Ovvero andavano mostrati ai giornalisti, agli ospiti importanti, alle delegazioni estere, ai parlamentari, ai turisti. Erano una fiction, insomma. Un’attrazione. E ora che i grandi flussi finanziari per l’accoglienza sono finiti, i pochi migranti rimasti a Riace fanno qualche lavoretto in campagna o cercano di campare con il reddito di cittadinanza.

Le famiglie, invece, sono divise: gli uomini sono partiti per il Nord Italia in cerca di un’occupazione nei cantieri e a casa sono rimaste le mogli, che riescono a racimolare qualche spicciolo facendo le badanti. «Tanti vengono aiutati dal Banco alimentare», dice il nuovo sindaco di Riace Antonio Trifoli, «uno strumento reale, che l’amministrazione ha pensato per tutte le famiglie bisognose e che è gestito dalla Croce rossa». Degli oltre 10 milioni di euro investiti tra il 2014 e el 2017 nel parco giochi dell’immigrazione voluto da Lucano, alla fine, qui non è rimasta traccia.

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