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(Netflix)
Televisione

La seconda stagione di Bridgerton, un «già visto» fatto bene

Luci ed ombre per l'ultima produzione di Shonda Rhimes

Meno impeto e tensione, meno sesso di quanto visto nella prima stagione. Bridgerton, i cui nuovi episodi hanno fatto capolino su Netflix lo scorso venerdì, non ha riproposto al proprio pubblico la formula dell’esordio, quel misto vincente di paranoie post-adolescenziali, inesattezze storiche e attrazione animale. Al contrario, ha cercato di darsi un tono romantico, di raccontare l’amore così come avrebbe fatto Jane Austen, mantenendo vivo – nell’intreccio di anime e carni – lo scontro sociale fra l’uomo padrone e la donna libera. Bridgerton, con la seconda stagione, è diventato altro da quel che è stato, da quel che, forse, ci si aspettava. Eppure, pur fatto su nella nuova confezione pudica, con la ragione che prevale sull’istinto, non ha perso l’attrattiva del debutto. Gli otto episodi di Bridgerton 2, senza Duca di Hastings e cucchiaini, senza le acrobazie di cui è stato intriso il primo capitolo, sono riusciti a convincere. Di più, ad affascinare. E questo nonostante alle mancanze di cui sopra si sia sommato un sempre maggior surrealismo storico.

Shonda Rhimes, eminenza grigia di Hollywood, ha voluto calcare la mano, nel produrre la seconda stagione di Bridgerton. Madonna e Rihanna hanno cantato in sottofondo, mentre davanti agli occhi della Regina, nel pieno della Regency inglese, è andato in scena uno spettacolo ancor più incredibile di quello che si è consumato lo scorso anno, quando diamante della stagione, la più ambita fra le donne in età da marito, è stata l’eterea Daphne. Leggasi, il prototipo perfetto della nobiltà dell’epoca. Pelle diafana, capelli ramati, occhi chiari, un’educazione impeccabile: Daphne Bridgerton è stata l’incarnazione ineccepibile di quel che, nel primo ventennio dell’Ottocento, doveva essere una dama inglese. E nessuno avrebbe potuto dubitare della sua veridicità. Così, Shonda Rhimes ha deciso di passare oltre, di dare uno scossone alla trama della sua seconda stagione. E, laddove ha volteggiato la piccola Daphne, davanti agli occhi della Regina Carlotta, mulatta nella serie come nelle leggende popolari, ha infilato Edwina Sharma, una ricca nobile di Mumbai. Edwina e la sorella, Kate, sono le protagoniste degli otto episodi, segnati come i primi da un ritratto assolutamente arbitrario della società dell’epoca. Una società che Shonda Rhimes ha riscritto per rispondere ad un interrogativo preciso: «Cosa sarebbe successo se persone di colore fossero state elevate in società con titoli, terre?», ha sintetizzato il regista, Chris Van Dusen, giustificando come tentativo di esplorare una realtà parallela la decisione di aprire Bridgerton, e con questo la Regency inglese a personaggi cui la Storia, quella con la S maiuscola, non avrebbe mai riservato alcuno spazio. Duchi di colore, dame mulatte e, nella nuova stagione, protagoniste indiane.

Edwina e Kate Sharma sono i poli di un triangolo piuttosto scontato. Perché Anthony Bridgerton, razionalissimo fratello di Daphne, si trova perso fra istinto e ragione di fronte alle sorelle. Dovrebbe prender moglie e, guidato dal buonsenso, scegliere il partito più opportuno, una donna «Sopportabile, rispettosa, fianchi adatti alla maternità e cervello», dove «L’ultimo requisito non è indispensabile». Edwina sarebbe la scelta più logica, ma sua sorella maggiore, recalcitrante e libertina, è la scelta del cuore. L’oggetto di un’attrazione meno animalesca e più cervellotica di quella che, nella prima stagione, ha legato il Duca di Hastings e Daphne Bridgerton. Anthony, come genere impone, proverà a combatterla, la propria natura, e così Kate, che della propria indipendenza vorrebbe fare una medaglia d’onore. Ma il finale, nella grande soap opera di Shonda Rhimes, una soap opera «politicizzata» in modo furbo, così che la trama frivola tolga potenza alle decisioni figlie dell’attualità, è già scritto. Spoiler, neanche la prevedibilità del tutto riuscirà a frenare l’entusiasmo che accompagna la serie. Bridgerton 2, primo «caso» dell’anno, risulterà godibile, godibilissima, nonostante la miriade di «se» e di «ma» che si trascina appresso. E, ancora una volta, arrivato in fondo, lo spettatore un po’ si stupirà di averlo fatto, di averla guardata tutta la serie, e pure con una certa avidità. Banale, ordinaria, già vista. Bridgerton, capitolo due e capitolo uno, non ha niente di oggettivamente entusiasmante. Eppure, smettere di dare credito all’universo strampalato di Shonda Rhimes, dove la Storia è sacrificata sull’altare degli -ismi più vari, è pressoché impossibile. E questa è la magia di Sua Signora delle serie tv, capace di trasformare l’ordinario in saghe senza fine (vedi Grey’s Anatomy).

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Claudia Casiraghi

(Milano, 1991)

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