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Terapie da sballo per la depressione

Terapie da sballo per la depressione

Nell’arsenale di molecole per combattere la depressione grave, ora stanno entrando vecchie sostanze psichedeliche: ketamina, funghi allucinogeni, gas esilarante… Una strada promettente, secondo diversi esperti. Ma con varie incognite.


Alla fine del suo secondo trattamento all’Hammersmith Hospital di Londra Kirk Rutter, afflitto da anni da una feroce depressione, aprì gli occhi e guardò il suo psicoterapeuta. L’immagine gli sembrò vagamente incongrua: Robin Carhart-Harris, psicologo e neuroscienziato, esibiva un terzo occhio spalancato sulla fronte. Anziché spaventarsi, il paziente sorrise, contraccambiato dal suo «triocchiuto» specialista.

L’effetto surrealista svanì da lì a poco. Del resto, quella non era la tradizionale terapia anti-depressiva: Rutter, malato dal 2011, nel 2015 era entrato a far parte di uno studio sperimentale sull’uso della psilocibina (principio attivo ricavato dai funghi allucingeni) nei casi di depressione invalidante e resistente a ogni trattamento. Il trial, condotto sotto la guida di Carhart-Harris, prevedeva l’impiego di droghe psichedeliche nei disturbi mentali: oltre alla psilocibina, ketamina, acido lisergico (Lsd), Mdma (Ecstasy).

Quello di Rutter, raccontato dalla rivista Nature, non è un caso isolato. Da qualche anno, nella psichiatria mondiale (soprattutto in Gran Bretagna e Stati Uniti, e in misura minore anche in Italia), si assiste a una sorta di revival terapeutico delle cosiddette «droghe da strada» nella depressione che non risponde ad alcuno psicofarmaco: secondo le cifre, i pazienti che non ne traggono beneficio, che siano gli Ssri (inibitori della ricaptazione della serotonina) o i «vecchi» triciclici, sarebbero circa il 30%.

Così, nel tentativo di fare un passo avanti verso trattamenti risolutivi nei casi disperati, gli psichiatri ne hanno fatto, per così dire, uno indietro, rispolverando sostanze un tempo bandite per la loro pericolosità su cervello e psiche. Una strada giudicata promettente secondo diversi esperti; considerata spregiudicata e rischiosa da altri. Molecole indubbiamente capaci di garantire formidabili «viaggi». La domanda chiave è se, nelle dosi e nei tempi giusti, e con la guida di personale esperto, siano capaci di «liberare» il malato dalla sua prigione di dolore psichico. E se l’evasione dura nel tempo senza effetti collaterali peggiori della depressione.

Kirk Rutter, a quanto parte, è stato fortunato: il suo mal di vivere si è dissipato. Se andate su Google, di testimonianze simili ne trovate parecchie: persone che, dopo aver esaurito il (non ricchissimo) catalogo degli antidepressivi, restavano murate nella loro disperazione fino al trattamento «da sballo»: nella maggior parte dei casi, la ketamina in vena. La rivista scientifica online Stat, per fare un altro esempio, cita il caso di Geoffrey Attardo, americano 50enne che iniziò ad assumere Prozac da giovane, con ottimi risultati svaniti dopo pochi mesi, per poi passare allo Zoloft per vent’anni che però «mi faceva sentire opaco e mai del tutto libero dalla depressione». Alla fine, con la ketamina terapeutica, il suo mondo tornò a colori.

Due anni fa, questa sostanza – usata da tempo in veterinaria e in medicina come anestetico per pazienti difficili – è stata approvata dalla Fda americana sotto forma di spray nasale: il primo medicinale di una nuova classe a essere messo in commercio dai tempi del Prozac, ossia dal 1986. Via libera in tempi rapidi, dopo trial clinici su 1.700 persone, non molte insomma.

«Ad averne brevettato la formula in spray è stata la multinazionale Johnson & Johnson, con il nome di esketamina» spiega Valerio Rosso, psichiatra e psicoterapeuta al Dipartimento di salute mentale di Cuneo (e autore di un blog di psichiatria molto seguito). «Ha visto che esisteva un mercato potenziale, dal momento che un terzo dei pazienti non risponde ai farmaci disponibili. Rispetto agli antidepressivi, l’esketamina agisce molto velocemente: nel giro di ore contro quattro-sei settimane. E ha anche un principio di azione molto diverso: si muove lungo la via del neurotrasmettitore glutammato anziché sul circuito della serotonina».

Il risultato è la riduzione dei sintomi depressivi e un rialzo nel tono dell’umore. Il problema è che l’effetto non sembra durare granché. Passato qualche settimana o qualche mese, i «demoni» facilmente tornano. «Ha un funzionamento pulsatile, non è un farmaco di mantenimento come gli altri antidepressivi» continua Rosso. Proprio per la sua rapidità d’azione, negli Stati Uniti pensano di somministrarla come salvavita contro il rischio di suicidio.

«Quando si esplorano nuove sostanze bandite negli anni Sessanta per i loro effetti indesiderati, bisogna sempre valutare il rapporto rischi-benefici» avverte Alessandro Bertolino, ordinario di psichiatria all’Università di Bari Aldo Moro. Il suo Dipartimento di psichiatria del Policlinico è stato il primo centro italiano a utilizzare ketamina ed esketamina. «In tanti casi noi psichiatri cerchiamo disperatamente di impedire che un paziente si suicidi, e si vorrebbe avere di tutto per farlo stare meglio».

Nell’ospedale di Bari, Bertolino ha trattato finora una decina di pazienti con depressione grave e resistente ai farmaci, cinque con infusioni di ketamina, cinque con spray nasale all’esketamina, con l’approvazione dell’ospedale e del comitato etico. «I risultati sono stati brillanti in alcuni casi, in altri meno» dice. «Comunque, proprio perché l’effetto non è duraturo, al trattamento è sempre associato un antidepressivo. Ma se i pazienti hanno avuto in passato episodi dissociativi, queste sostanze non sono indicate perché potrebbero innescare psicosi. Secondo gli studi per ora disponibili, sembra non ci siano nel lungo termine alterazioni dell’attenzione e della memoria, però è davvero presto per trarne conclusioni definitive».

Nel «ritorno al passato» cercando molecole del futuro, ketamina ed esketamina sono in buona compagnia. L’attenzione di una parte della psichiatria e dell’industria farmaceutica punta anche ai principi attivi dei funghetti allucinogeni, come la psilocibina. Negli Usa, diversi Stati o città stanno pensando di legalizzarne l’uso come farmaco terapeutico: «psicoterapia psicheledica assistista», come la chiamano. E istituzioni come la Johns Hopkins University di Baltimora (nel Maryland), l’università californiana di Berkeley, la Icahn School of Medicine di Mount Sinai, a New York, hanno aperto centri specializzati nell’analizzarne il funzionamento nei disturbi gravi dell’umore – depressione intrattabile, stress post traumatico – dove pare abbia risultati incoraggianti.

Non solo. In Germania, il finanziere tedesco Christian Angermayer, dopo aver sperimentato lui stesso (con il consenso, assicura, del medico personale) un’inebriante avventura a base di psilocibina con altri amici a bordo di uno yacht, ha deciso di farne un business: ha messo in piedi, con altri imprenditori e 400 milioni di euro, una manciata di start-up dove sviluppare formulazioni psichedeliche a uso medico. Una di queste, la Compass Pathways, ha già brevettato un metodo per produre psilocibina in laboratorio anzichè estrarla dai funghi «magici», ottenendo dalla Fda l’autorizzazione per iniziare i trial su pazienti depressi gravi che non rispondono ad altre cure.

Il nuovo filone «proviamo anche questa» esplora persino il gas esilarante, finora utilizzato dai dentisti per sedare i pazienti più angosciati. Ricercatori all’Università di Washington a St. Louis dopo aver visto che una dose di protossido di azoto funziona nell’alleviare i sintomi dell’ansia (studio su Science Translational Medicine), ora progettano esperimenti clinici più ampi.
Speranze e cautela. E parecchia, trattandosi di molecole potenzialmente pericolose. Per questo, altri scienziati restano scettici o molto prudenti.

Tira il freno a mano, per esempio, Carlo Alfredo Altamura, ordinario di Psichiatria presso l’Università di Milano, già direttore della Clinica psichiatrica del Policlinico, e presidente Società italiana dei disturbi depressivi. «Anche rivisitandole a scopo medico, abbiamo i dati di ciò che queste sostanze fanno al cervello, possono indurre psicosi talora irreversibili» afferma. «Questo perché, a differenza degli antidepressivi, ketamina, psilocibina, mescalina riescono a modificare funzionalmente la serotonina e altri recettori. E quando li “rompono”, il meccanismo cerebrale ne risulta alterato. Dopo il cervello funziona in modo diverso. E non è detto che il cambiamento sia positivo. Infine, c’è sempre il rischio di dipendenza».

Il loro uso andrebbe ristretto ai pazienti con una diagnosi di depressione maggiore grave e a rischio suicidio. «Se dopo quattro settimane di trattamento con farmaci diversi non abbiamo alcuna risposta clinica, allora dobbiamo provare qualcos’altro, certo. Ma ottimizziamo ciò che già possediamo, per esempio la stimolazione magnetica cerebrale, superficiale o profonda. E se nemmeno questa funziona, si può pensare all’uso di sostanze psichedeliche, valutando attentamente rischi e benefici, e l’eventuale predisposizione a sviluppare psicosi. Servono comunque evidenze che coinvolgano un numero più ampio di pazienti monitorati nel tempo, per ora i dati sulle diverse sostanze allucinogeniche sono scarsi e disomogenei».

Le droghe psichedeliche, sia pure a scopo terapeutico, accendono nel cervello il circuito del piacere, lo stesso attivato dal fumo, dal gioco d’azzardo, dal sesso. «Vengono bloccate le aree dei lobi frontali, quelli che ci fanno pensare e decidere» conclude Altamura. «Ho visto nella pratica clinica, e la mia è lunga, i danni che possono fare queste sostanze. Sperimentiamo pure, ma con la massima cautela per evitare gli errori commessi in passato con le droghe psicomimetiche».

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