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Remuzzi: «Sul Covid qualcosa è davvero cambiato»

Remuzzi: «Sul Covid qualcosa è davvero cambiato»

Il virus c’è ancora, ma la malattia non è più come prima. Tamponi a tutti? Ma no. E nella Fase 2 non è vero che abbiamo agito di fretta. Parla Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto «Mario Negri» di Bergamo. Che aspetta il vaccino, senza troppi timori.


La scomparsa, presunta, del coronavirus che ha travolto le nostre vite, le polemiche interminabili sui tamponi, il tormentone (e tormento) delle mascherine, il sogno di un futuro sanificato in ogni angolo… Non bastassero le nostre consuete ansie covidiane, l’eccesso di informazioni, che spesso fanno a pugni tra loro, un po’ come tanti esperti, diventa una specie di google maps impazzito che non porta da nessuna parte. A Giuseppe Remuzzi, scienziato autorevole e, forse per questo, pacato, oltre che direttore dell’Istituto farmacologico «Mario Negri» di Bergamo, abbiamo chiesto di portarci fuori da luoghi comuni, timori eccessivi, informazioni infondate. E lui lo ha fatto.

Il virus morde meno, professore? O addirittura, «clinicamente non esiste più»?
«”Clinicamente inesistente” è un modo un po’ particolare di esprimersi, il virus o c’è o non c’è, e che ci sia ancora è fuor di dubbio. Però è vero che siamo di fronte a una malattia che si manifesta in modo molto più lieve, come fosse un’altra. Al pronto soccorso non arrivano più malati in crisi respiratoria come sette settimane fa. Qualcosa sta cambiando».

Insomma, è ancora tra noi ma si comporta in modo diverso. Il motivo?
«Direi che ci sono due ipotesi. La prima è che è diminuita la sua carica virale, per effetto anche del lockdown: se stiamo
a distanza, ci laviamo le mani e indossiamo la mascherina è evidente che ci arrivano meno particelle virali. All’ospedale di Brescia, il virologo Arnaldo Caruso ha visto che gli ultimi tamponi mostravano una quantità di Rna virale molto più bassa di quella di cinque settimane prima. E nell’unico tampone dove la carica era invece elevata, il virus faticava a uccidere le cellule: dopo circa sei giorni ne moriva qualcuna, mentre prima tutte le cellule esposte a una carica virale comparabile morivano in 48 ore».

Se tornassimo a fare tutto come prima, la carica risalirebbe?
«È probabile».

Merito nostro, quindi, che siamo stati bravi?
«In parte sì, poi tutti i virus a un certo punto si attenuano, ed è la seconda spiegazione. Le epidemie si esauriscono, lo farà anche Covid-19, anche se non in tempi brevi. Questa è stata una pandemia che ha unito la gravità della Sars alla contagiosità dell’influenza. Continuerà a stare con noi per uno/due anni. Finché, a furia di circolare, si fermerà».

Insomma, significa che alla fine ci ammaleremo tutti?
«Non è detto. Un recentissimo lavoro su Nature indica che basterebbe un’immunità di popolazione del 55%. La Lombardia è stata devastata, e i contagi sono scesi a fatica».

Colpa del fatto che, come si è sempre detto, non facciamo abbastanza tamponi? Il Veneto, che ne ha fatti di più, ha giocato la carta vincente?
«Direi che è una narrazione inesatta. Il Veneto ha fatto bene, ma sono stati anche fortunati. Un calcolo effettuato dall’epidemiologo Cesare Cislaghi, che si chiama “replicazione diagnostica”, dimostra come all’inizio, il 3 marzo, ci fossero molti più contagi nell’area lombarda, ma dopo una primissima fase la Lombardia è riuscita a ottenere un calo più rapido dell’epidemia rispetto al Veneto: dopo circa un mese il suo valore di replicazione era 2,3, in Veneto era 3, nonostante quello lombardo fosse un focolaio molto ampio. Come vede, la materia è complessa».

E l’infinito dibattito sui tamponi?
«Non possiamo farli a 60 milioni di italiani, non abbiamo i mezzi, le risorse e i reagenti. Inoltre un esito negativo oggi non esclude il contagio domani. Hanno senso su categorie ben selezionate: agli operatori sanitari di ospedali e Rsa, a tutti i lavoratori
a contatto con il pubblico, alle rete di relazioni intorno ai casi positivi».

Ci sono dubbi anche sul fatto che siano così affidabili…
«Attenti a non dargli una patente di infallibilità. Dipende molto da chi effettua l’esame: un operatore esperto o un otorinolaringoiatra conosce il punto esatto dove fare il prelievo, altrimenti può esserci un margine di errore non trascurabile. E anche la quarantena, poi, è un problema aperto…»

In che senso?
«In Cina era facile: li mettevano tutti in strutture ampie come stadi, con aree separate: i casi più gravi in ventilazione assistita, altri curati con i farmaci, altri ancora giocavano a carte. Da noi sarebbe stato impossibile».

Da noi stavano a casa e contagiavano i familiari.
«E le case, così come gli ospedali e le Rsa, sono diventati veicoli micidiali di contagio».

Che errori ha commesso la Lombardia?
«Non amo i discorsi con il senno di poi. Diciamo che la Lombardia ha scontato un peccato originale, e antico: ha costruito una sanità centrata sul mercato, mettendo in competizione pubblico e privato. Peccato che nel campo della salute il mercato
non funziona, noi dobbiamo ridurre il fatturato non aumentarlo, puntare più sulla prevenzione, mentre il privato – che è comunque supportato per il 90% da soldi pubblici – il fatturato deve aumentarlo. E poi, forse, alcune zone lombarde si sarebbero potute chiudere prima».

A proposito di prevenzione: abbiamo sempre su la mascherina, sanifichiamo ogni cosa, tutto bene?
«La mascherina sì. È come la cintura di sicurezza. Lei la mette giusto? Magari sarà servita di rado, però quell’unica volta le avrà evitato il peggio. La mascherina è uguale: non serve sempre, ma se quello davanti tossisce o starnutisce ed è positivo, meglio che ce l’abbia su. E come lui, tutti. Diverso il discorso per la sanificazione».

Perché? Se entro in un locale, voglio che non sia contaminato.
«L’idea della sanificazione è esplosa dopo un articolo sul New England Journal of Medicine…»

Me lo ricordo, diceva quante ore il virus resiste sulla carta, sulla plastica, sul metallo…
«Ma quel lavoro non diceva che il virus poteva contagiare, solo che dopo tot ore, su superficie diverse, c’erano tracce del genoma virale, che è altra cosa».

Ce lo spieghi meglio.
«Il fatto che di trovare presenza di Rna virale non significa che ci sia il virus intero con la sua capsula. Non solo. Perché una particella virale possa trasmettere l’infezione occorre che sia idratata, e spesso in presenza di sole e luce non lo è più. Poi bisogna che qualcuno passi subito dopo che quella superficie è stata toccata da un malato, e metta le mani esattamente nel punto dove le ha messe lui. E se anche lo facesse dovrebbe poi mettersi le mani nel naso o strofinarsi gli occhi. Insomma, ci vorrebbe una tale sfortunata serie di coincidenze che lo ritengo alquanto improbabile. Lavarsi le mani è più che sufficiente».

Siamo stati frettolosi nella Fase 2?
«Non credo, è frutto di un calcolo rischio-beneficio. L’apertura andava fatta. Certo, ad aprire si rischia qualcosa, ma a tenere chiuso si rischiano disastri economici e conflitti sociali. E anche queste cose hanno ricadute pesanti sulla salute».

Quest’inverno cosa succederà?
«Non ne ho la minima idea. Però mi preoccupa la combinazione tra Covid-19 e influenza stagionale, che potrebbe colpire persone non del tutto ristabilite dal coronavirus. Sarà un grosso problema, a parte l’eventuale ritorno dei contagi. Vaccinarsi contro l’influenza potrebbe proteggere i più fragili, in modo che il coronavirus non trovi terreno fertile per fare danni».

Lei è ottimista sul vaccino anti-Covid? Non teme che i tempi record vadano a scapito della sicurezza?
«No, sono vaccini abbastanza sicuri. Il sistema rapido per testarne la sicurezza, come sta facendo l’azienda biotecnologica Moderna con centinaia di soggetti, è testarlo su volontari sani e poi esporli al virus».

Ci vuole un certo coraggio…
«No, perché si è visto che il vaccino fa sviluppare anticorpi neutralizzanti, quelli protettivi nei confronti del virus».

Allora, facciamo finta che tra un anno il vaccino ci sia. Lei se lo farà?
«Sì. Purché non venga acquistato soltanto dagli Stati Uniti, che se lo sono già prenotato. Solo rendendolo disponibile in ogni Paese, saremo tutti protetti».

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