A questi prodotti lo Stato applica gli stessi costi di registrazione dei medicinali tradizionali, sebbene si tratti di un mercato con un fatturato complessivo molto minore. Un trattamento che penalizza anche i 10 milioni di pazienti italiani che si curano così. E che andrebbe invece rimodulato sull’esempio di altri Paesi stranieri.
Un mercato che vale il 2 per cento del settore farmaceutico e al quale si rivolgono 10 milioni di italiani. Il farmaco omeopatico – riconosciuto come tale in Italia dal 2006 grazie al recepimento della direttiva europea che regolamenta il mercato farmaceutico dentro la Ue – nonostante muova una filiera che contribuisce, ogni anno, alle casse dello Stato con 50 milioni di euro di tasse e impiega circa 2 mila addetti, sconta ancora un trattamento penalizzante da parte delle istituzioni che dovrebbero tutelarlo. Penalizzante soprattutto per le tariffe e le modalità informative per medici e pazienti.
Per capirne i motivi abbiamo intervistato Giovanni Gorga, presidente di Omeoimprese, l’Associazione delle aziende produttrici di medicinali omeopatici, nata nel gennaio del 2008 a seguito della fusione di Anipro e Omeoindustria.
Presidente Gorga, come Omeoimprese lamentate da tempo un trattamento «ingiusto» relativo alle tariffe di registrazione dei farmaci omeopatici. Ci spiega meglio?
Certo. Un farmaco, per venire ammesso e mantenuto in commercio, deve essere validato da parte degli uffici dell’Aifa: questo comporta una serie di costi e oneri, tariffe di registrazione e di rinnovo, anche perché l’Aic – l’autorizzazione all’immissione in commercio – deve essere aggiornato ogni 5 anni e anche ogni volta che, per esempio, i produttori decidono di cambiare il fornitore di una materia prima. Dove sta il problema? Nel fatto che Aifa, l’Agenzia italiana per il controllo dei farmaci, e il ministero della Salute non tengono conto della peculiarità del mercato omeopatico rispetto a quello allopatico, ossia tradizionale.
In definitiva denunciate che lo Stato non tiene conto dei diversi mercati e fatturati?
Guardi, diceva Don Milani che «non c’è cosa più ingiusta che voler fare parti uguali tra diseguali». Il fatturato complessivo italiano del comparto omeopatico in Italia non arriva a 300 milioni di euro all’anno: cifra che corrisponde a quello di una azienda allopatica media. I fatturati medi per ogni singolo prodotto si aggirano tra i 10 mila e 15 mila euro annui. Se io per quel medicinale devo fare una variazione di Aic per un cambio produttore, e quella variazione devo pagarla 10 mila euro – esattamente come deve fare chi produce un chemioterapico – capisce bene che c’è un’incongruenza che rende questa operazione non sostenibile economicamente.
Tra l’altro, secondo le prime proiezioni di questa fine 2021, il mercato dell’omeopatia registra un +3 per cento in termini di volumi rispetto all’anno precedente, ma con un fatturato complessivo vicino a quello del 2020. È stata una scelta di «vicinanza» ai cittadini?
Proprio così. In una situazione nazionale che ha visto un’impennata del costo della vita e un aumento generale dei prezzi, il mercato dell’omeopatia ha fatto una scelta in controtendenza, mettendosi al servizio della salute: i prodotti omeopatici sono stati venduti a un prezzo medio più basso rispetto allo scorso anno. Una decisione premiata da medici, farmacisti e pazienti che hanno trovato nelle medicine complementari un alleato contro disturbi di lieve e media entità e come supporto alle cure farmacologiche tradizionali in caso di patologie gravi. Però ora il comparto si trova di fronte alla necessità di rivedere l’intero listino tariffario per registrare, aggiornare o mantenere sul mercato i propri farmaci. E spiace dire che, da tempo, Omeoimprese chiede queste rimodulazioni senza ottenere ascolto da parte delle istituzioni sanitarie.
Esiste poi sempre l’annoso problema del divieto di apporre indicazioni terapeutiche ai farmaci omeopatici. È cambiato qualcosa negli ultimi mesi?
Purtroppo no. In Italia, a differenza di tutti i Paesi dell’Unione Europea, le aziende non possono ancora dotare i farmaci di foglietti informativi, se non dopo un processo di autorizzazione ancora più oneroso, complicato e lungo di quelli di cui abbiamo parlato prima. Questo è ovviamente penalizzante nei confronti delle imprese e soprattutto dei pazienti, ai quali viene di fatto negata un’alternativa possibile.
Negli altri Paesi dell’Unione europea è stato risolto anche il problema delle tariffe regolatorie?
Se analizziamo realtà come Irlanda, Spagna o Francia, notiamo chiaramente come le tariffe non superino mai qualche centinaio di euro, a fronte di importi che, in Italia, possono arrivare fino a 20 mila euro. Situazione pressoché identica si riscontra in Austria, Lettonia e Paesi Bassi dove le tariffe per gli omeopatici non vanno oltre i 250 euro.
Alla fine come si potrebbero superare questi problemi?
Con un confronto costante con ministero della Salute e Agenzia del farmaco. Siamo consapevoli del fatto che la pandemia da Covid-19 ha portato a una doverosa riorganizzazione dell’agenda di governo, ma ora non è più possibile aspettare; occorre sedersi tutti intorno a un tavolo per far ripartire un dialogo sereno e costruttivo. E senza il condizionamento di una parte della società scientifica da sempre contraria all’omeopatia. Anche perché, dietro i circa 10 milioni di pazienti che si rivolgono ai prodotti omeopatici, ci sono migliaia di medici che li consigliano e li prescrivono. Secondo gli ultimi sondaggi, un pediatra su tre e un medico di famiglia su cinque li prescrivono, oltre a molti professionisti come ginecologi, allergologi, ortopedici, pneumologi. Tutti medici che utilizzano la medicina omeopatica – in modo complementare, ovviamente – e sono quasi tutti all’interno di strutture pubbliche.
