Negli Stati Uniti, la creazione di un bioreattore artificiale che funziona come un vero rene è il primo passo concreto verso una terapia risolutiva dell’insufficienza renale grave, senza la «schiavitù» di essere attaccati a una macchina per poter sopravvivere.
Per chi soffre di cuore la data da ricordare è il 1958, quando il chirurgo Åke Senning e l’ingegnere Rune Elmqvist impiantarono il primo pacemaker in un paziente con frequenza cardiaca troppo bassa al Karolinska Hospital di Stoccolma. Da allora poté avere una vita normale un numero enorme di persone (in Italia 34 mila pazienti cardiaci l’anno). Per i malati di reni si potrebbe dire che il sogno di costruire un dispositivo che allievi le sofferenze dell’insufficienza renale cronica si realizzerà al più tardi nel 2030. Ci lavora da anni la University of California San Francisco nell’ambito del Kidney Project con l’obiettivo di creare un piccolo rene bioartificiale da impiantare chirurgicamente.
La buona notizia, pubblicata su Nature Communications, è che i ricercatori hanno dimostrato per la prima volta che questo dispositivo artificiale funziona, anche se ancora per un tempo limitato. Per l’esattezza, cellule del rene umano, poste in un bioreattore impiantabile, si sono moltiplicate e sono sopravvissute per una settimana nell’organismo di un maiale compiendo la maggior parte delle funzioni di un organo normale. E senza suscitare alcuna reazione del sistema immunitario, il grande problema degli attuali trapianti. I ricercatori aggiungono che non ci sono motivi per i quali il rene artificiale non dovrebbe funzionare nell’uomo, anche se ci vorranno cinque anni per tutte le sperimentazioni cliniche.
Attualmente i pazienti con malattia renale cronica non sono pochi: secondo lo studio multinazionale Reveal-CKD (sul Journal of the American Society of Nephrology), rappresentano il 9 per cento della popolazione italiana, con un 77 per cento in stadio precoce non diagnosticato. Nel mondo ne soffrono 850 milioni di persone con un alto tasso di mortalità (più o meno il 50 per cento) dopo cinque anni di dialisi. Il trapianto di rene consente nell’80 per cento dei casi la sopravvivenza dopo 5 anni dall’intervento, ma con farmaci immunosoppressivi a vita, senza contare il fatto che mancano i donatori. Negli Stati Uniti, per esempio, ogni anno si effettuano circa 20 mila trapianti di rene, soddisfando il bisogno di meno del 20 per cento di chi è in lista di attesa.
«Il fatto di coniugare tecnologie biologiche di laboratorio con la bioingegneria è una novità assoluta dello studio su Nature Communications, piuttosto promettente» afferma Mario Cozzolino, Ordinario di Nefrologia al Dipartimento Scienze della Salute dell’Università di Milano e Direttore della SC di Nefrologia e Dialisi ASST Santi Paolo e Carlo. «Quello che i ricercatori sono riusciti a fare è tenere vive le cellule del rene umano in un maiale per una settimana. Il prossimo passo sarà ripetere l’esperimento in altri laboratori e prolungare sempre più questo tempo». Il bioreattore si connette direttamente ai vasi sanguigni così da permettere il passaggio di ossigeno e nutrienti. Membrane al silicone tengono le cellule all’interno del bioreattore al riparo dagli attacchi del sistema immunitario dell’ospite. «Significa che non c’è bisogno di terapie anticoagulanti, quelle che un paziente trapiantato deve assumere per la vita, un grande successo» spiega Cozzolino. «Non bisogna però dimenticare che il rene non compie una sola funzione ma molte, quindi ciò che vogliamo da un dispositivo del genere è che sia capace di effettuarle tutte. Da quello che si evince, riesce a mantenere il corretto equilibrio idro-salino nell’organismo e a depurare il sangue. E anche a svolgere le funzioni endocrine del rene relative all’attivazione la vitamina D. Altre, non descritte nello studio, sono la sintesi dell’eritropoietina per il controllo dei livelli di emoglobina e la regolazione della sintesi di renina per il controllo della pressione arteriosa. Probabilmente si tratta di un traguardo ancora da raggiungere».
A guidare gli autori dello studio sono William Fissel e Shuvo Roy, affiliati all’azienda biotecnologica Silicon Kidney e all’Università di San Francisco, che hanno ricevuto fondi per sei milioni di dollari nel 2015. Da allora i progressi sono stati costanti anche grazie alla nanotecnologia al silicone che ha permesso di costruire il micro-filtro poroso, cuore del progetto. Gli autori dicono di aspettarsi che, alla fine dei test clinici, e ottenute le approvazioni delle agenzie regolatorie nei vari Stati, questo rene artificiale sarà un’opzione tutte le volte che ci sarà bisogno di un trapianto. E sarà disponibile nei casi di insufficienza renale grave, in attesa di un organo nuovo. Difficile che sia una soluzione per sempre dato che il bioreattore mantiene le cellule vive per un tempo limitato.
«In Italia, vi sono ricerche sul rene artificiale impiantabile e su staminali in varie città, da Vicenza a Bergamo a Firenze, non ancora giunte al risultato finale» precisa Cozzolino. Il problema da risolvere è sempre lo stesso: le cellule renali, i nefroni, se muoiono non si riformano. Così una strategia è eliminare dal rene tutte le cellule malate fino a ridurlo alla sola «impalcatura» e ripopolarlo con staminali ottenute dalle cellule adulte del malato. L’altra tecnica è sfruttare la capacità delle cellule di auto-organizzarsi a partire dalle staminali umane. Finora nessuno è arrivato alla soluzione finale. Oltre al rene bioartificiale dell’università di San Francisco e quello costruito in laboratorio a partire dalle staminali, le altre strade perseguite nel mondo sono quella del rene artificiale portatile e degli xenotrapianti. Il primo è una sorta di dialisi da spalla dal peso di circa 10 chili che però ha il problema non superato di richiedere una quantità di liquido infuso nel paziente troppo grande. Lo xenotrapianto, d’altra parte, è un intervento da maiale geneticamente modificato, e in questo caso, c’è ancora in problema del rigetto. In questo scenario, il rene bioartificiale impiantabile resta di gran lunga la soluzione vincente. Deve soltanto risolvere il problema della durata del tempo di mantenimento. Il progetto c’è o, per dirla con gli americani, è un «proof of concept», ossia la dimostrazione che il concetto funziona.