Dopo tanti flop nella cura dell’obesità, una nuova generazione di molecole consente di perdere fino al 30 per cento del proprio peso (ma se si interrompe la terapia, il problema torna). E la moda di assumerli anche per qualche chilo di troppo è già scoppiata. Mentre è sempre più forte la «tirannia» della forma perfetta.
La storia della cura per l’obesità è stata, finora, costellata di speranze più che di veri passi avanti, di fallimenti, mezzi successi, delusioni. I medicinali per perdere peso in chi si porta addosso 20, 30 o 50 chili in più risultavano assai poco efficaci, in compenso avevano parecchi, e pesanti, effetti collaterali. Ma nell’ultimo convegno scientifico su questa patologia, lo scorso novembre alla ObesityWeek di San Diego, California, del perenne senso di frustrazione che da anni caratterizzava questi incontri non c’era traccia. Come racconta Nature, i risultati di un trial clinico su un nuovo farmaco (messo a punto da Novo Nordisk) sono stati accolti, per la prima volta, da un applauso. Lo studio, condotto su adolescenti obesi – i più difficili da far dimagrire – riportava una perdita di peso di almeno il 20 per cento dopo 16 mesi di un’iniezione settimanale di semaglutide, un anti-diabetico. Indagini precedenti ne avevano dimostrato lanaloga efficacia negli adulti.
Dopo decenni di ricerche e tentativi, finalmente qualcosa che fa la differenza (conquistandosi anche le copertine di settimanali come New York ed Economist). Soprattutto in un periodo storico in cui il grasso in eccesso è un’epidemia planetaria. Dagli anni Settanta in poi, i tassi di obesità sono quasi triplicati ovunque: dati Oms indicano che nel mondo sono affetti da sovrappeso oppure obesità il 50 per cento degli adulti e il 30 per cento di bambini e adolescenti. E in Italia? Qui sono oltre 25 milioni le persone in eccesso di peso, ossia quasi metà degli adulti (oltre il 46 per cento).
Le nuove molecole sono state quindi salutate con comprensibile entusiasmo dalla maggior parte degli scienziati. «Breakthrough», una svolta, sono state definite: semaglutide, glucagone, liraglutide, tirzepatide… Agiscono sui recettori del glucagone o delle incretine (come il GLP1 o il GIP): ormoni prodotti a livello gastrointestinale, dopo il pasto, che potenziano la produzione di insulina. In pratica – non ci addentriamo nei dettagli per mancanza di spazio, e per non abusare della pazienza dei lettori – attraverso una serie di meccanismi biologi che spingono a mangiare meno e rallentano il consumo di cibo.
«Nella terapia dell’obesità poligenica o a eziologia ignota, che rappresenta il 95 per cento dei casi, questi farmaci sono effettivamente una novità importante» dice Margherita Maffei, dirigente di ricerca presso l’Istituto di Fisiologia clinica del Cnr a Pisa, e parte del team del Centro Obesità e lipodistrofia all’Ospedale universitario pisano. «Finora, in mancanza di cure efficaci e come estrema ratio, si interveniva con la chirurgia bariatrica, resecando parti dell’intestino o dello stomaco: l’assorbimento del cibo ne risultava molto ridotto e il paziente era anche costretto a mangiare meno per una serie di disturbi gastrointestinali che ne derivavano. Ora si è visto che questi agonisti del glucagone e delle incretine danno risultati paragonabili a quelli della chirurgia: la tirzepadide, per esempio, ha un effetto sull’obesità straordinario, porta a un calo del 25 per cento, non si era mai visto un risultato simile».
Quest’ultima molecola andrà nella pratica clinica entro il 2023, le altre «nuove pillole» sono già disponibili. Ma siccome in medicina nulla è mai semplice, e i trionfi senza ombre sono rari, anche questi farmaci arrivano non privi di domande e dubbi. «Visti i report clamorosi, l’industria farmaceutica ci ha già investito grandi somme di denaro. Non basta però che i dati siano pubblicati sul New England Journal of Medicine per accettarli come evidenti» commenta Ottavio Bosello, medico geriatra, nutrizionista ed endocrinologo all’Università di Verona. «Bisogna che altri due gruppi di ricerca, altrove e in condizioni diverse, diano gli stessi esiti. E questo vale per tutte le scoperte scientifiche. Gli effetti collaterali poi non sono minimi come dicono, nausea e vomito nel caso dell’agonista del glucagone, forse dovranno purificare la molecola» conclude l’esperto (che a suo tempo fece il perito in tanti casi di morte in pazienti con obesità che prendevano farmaci anoressizzanti).
Un’altra incognita è come, esattamente, queste molecole facciano perdere peso. «Quali sono di preciso gli interruttori biologici che “premono”? Se ne vedono gli effetti clinici, ma ancora non è chiaro il meccanismo» dice Maffei. La domanda che ne consegue, non di poco conto, è: cosa succede nel resto dell’organismo? «Il comportamento alimentare è complesso» spiega la ricercatrice. «Se io vado a interagire in questo circuito, possibile che non interferisca anche su altri? Cosa sto modificando nel cervello per creare un effetto così importante? Diciamo che il risultato, eclatante da un punto di vista clinico, apre affascinanti quesiti di ricerca». E poi, quanto tempo dura la terapia? Secondo Bosello, si tratta comunque di farmaci sintomatici, bloccano l’istinto a mangiare, ma se si smette di prenderli si torna facilmente a ingrassare. Aggiunge Maffei: «È la domanda che faccio ai miei colleghi medici: “Vanno assunti per tutta la vita?”. E la risposta è regolarmente “sì”. Non aggiustano un sistema che poi va a posto, bisogna avere quei dosaggi per sempre, se si smette si rischia il cosiddetto “effetto rebound”, una piccola crisi di astinenza per cui si torna a prendere peso».
Dettaglio quasi sempre ignorato da chi, magari solo in sovrappeso, vede negli agonisti del glucagone e delle incretine i nuovi «oggetti del desiderio». Un’agile scorciatoia per riconciliarsi con la bilancia. A fronte di effetti collaterali non eccessivi, gli stessi medici non sono restii a prescrivere gli agonisti del glucagone, per esempio, tanto che il principio attivo inizia a scarseggiare per i pazienti diabetici che ne hanno davvero bisogno (discorso a parte meritano le vendite online, come sempre incontrollate). Ha senso assumerli per sbarazzarsi di una decina di chili? «Sì, se il grasso è localizzato sull’addome, perché è rischioso per il sistema cardiocircolatorio, ma se è distribuito un po’ ovunque, meglio di no» sostiene Bosello. «Certo, se una persona può permetterselo (sono medicinali molto costosi e non passati dal Sistema sanitario nazionale, ndr) e il dietologo vuole raggiungere risultati veloci per non perdere il paziente, lo prescrive. Anche se sa che, se si sospende ci sarà l’effetto rebound perché i meccanismi psicobiologici del bilancio energetico tornano allo stato precedente».
Nel business delle pillole «magiche» contro i chili in più ha un ruolo innegabile (al di là degli effettivi danni dell’obesità sulla salute), l’attuale «tirannia» della magrezza e lo stigma sociale per chi tale non è. «Negli ultimi 40 anni si è assistito all’interiorizzazione dell’ideale di magrezza» conferma Daniele Di Pauli, psicologo e psicoterapeuta (e autore nel 2021 del saggio Obesità e stigma). «Uno studio di qualche tempo fa ha paragonato il peso delle modelle di Playboy dalla fine degli anni Cinquanta a oggi: l’indice di massa corporea che era intorno a 20 è arrivato a 18, ossia sottopeso». Il problema riguarda in primis il genere femminile, ma non solo loro. «Nella nostra società alla donna è richiesto di essere una brava lavoratrice, una brava moglie, una brava madre e anche di essere in forma secondo quei canoni estetici. E questa “esigenza” non risparmia gli uomini, che devono apparire magri e palestrati. La fisicità di Kirk Douglas in Spartacus è molto diversa da quella di Brad Pitt in Troy: spalle larghe, vita stretta, addominali a tartaruga. Non a caso anche tra i maschi sono in aumento i disturbi alimentari».
Chi ha tanti chili di troppo è poi spesso visto come un vizioso che non controlla la fame e non si prende cura di sé, e compensa nel cibo i suoi fallimenti. Dimenticando che l’eccesso di peso, e soprattutto l’obesità, sono condizioni multifattoriali. Il corpo «non conforme», insomma, viene denigrato (come nel film The Whale). Ma l’impietoso giudizio altrui può essere una molla per cambiare? «Assolutamente no» risponde Di Pauli. «Ricerche americane e inglesi mostrano il contrario: le critiche non motivano le persone, anzi diventano più vulnerabili ad ansia e depressione, alle abbuffate da stress che anestetizzano la frustrazione di non corrispondere a certi canoni. Un circolo vizioso». Infine, ci sia consentito una sorta di «riabilitazione» (moderata) del grasso. Se quello che si accumula intorno all’addome – lasciando braccia e gambe magre – è pericoloso, il grasso distribuito in modo più «armonioso» è benigno. «Il grasso non viscerale in una certa misura è protettivo» conferma Maffei. «È il modo in cui corpo immagazzina energia che prima o poi servirà: in gravidanza, nell’invecchiamento. Fior di lavori dicono che dopo i 70 anni pesare due tre chili in più è meglio, protegge dall’osteporosi, dal malassorbimento tipico degli anziani. Il tessuto adiposo produce leptina, importante anche per il sistema immune. Ricerche epidemiologiche estese, infine, indicano che se l’obesità riduce la speranza di vita, un modesto sovrappeso la allunga». Non vedremo mai un centenario o una centenaria esondanti come lottatori di Sumo, questo è sicuro. Ma con il passare degli anni un peso costante (senza saliscendi) con un po’ di riserva sottocute, un paio di rotolini sopra la cintura o qualche mollezza sui fianchi potrebbero essere degli alleati. O, per cambiare immagine, un piccolo conto in banca contro gli imprevisti del tempo.