Di degenerazione maculare senile soffrono quasi un milione e mezzo di italiani. Per loro, esiste oggi un nuovo farmaco più efficace di quelli disponibili fino ad adesso. Anche se, prima di una diagnosi mirata, passa ancora troppo tempo…
Si chiama «degenerazione maculare senile», colpisce la macula, la zona al centro della retina, e affligge circa un milione e 400 mila italiani. Ogni anno, in genere dopo i 55 anni, tra 63 mila e 91 mila persone si accorgono di un calo della vista nella zona centrale di uno o entrambi gli occhi. Nel suo decorso, la maculopatia compromette la capacità di vedere i colori e i dettagli, con gravi riflessi nella vita quotidiana, anche se la visione laterale e «paracentrale» viene conservata. Per bloccare il processo finora i retinologi facevano affidamento su quattro farmaci: il Macugen (principio attivo: pegaptanib sodico); il Lucentis (ranibizumab), l’Eylea (aflibercept) e l’Avastin (bevacizumab). Tutti si basano su un’idea dello scienziato Judah Folkman dell’Harvard Medical School, scomparso da pochi anni: colpire i Vegf, acronimo per Vascular endothelial growth factor, un segnale tra le cellule che determina la crescita o la rottura dei vasi sanguigni nel tessuto su cui si appoggia la retina.
Il problema di questi medicinali è, prima di tutto, nella loro somministrazione: iniezioni intra-vitreali dolorose il cui effetto dura al massimo un paio di mesi. «La novità oggi è l’arrivo di un farmaco, il Beovu (brolucizumab, ndr), che ha un effetto quasi doppio rispetto agli altri» spiega Francesco Bandello, primario dell’Unità oculistica dell’Ospedale San Raffaele di Milano, intervenuto al 75°congresso della Società oftalmologica lombarda (Sol). «Ha due vantaggi: il paziente deve sottoporsi meno spesso alla somministrazione e comporta anche minor impegno in coloro che devono assisterlo. A volte i pazienti rimandano gli appuntamenti per le iniezioni intravitreali perché non vogliono preoccupare i familiari, o non hanno nessuno su cui poter contare. Situazione ancora più frequente durante la pandemia».
Nei trial clinici culminati con l’approvazione da parte dell’Ema, il nuovo farmaco ha ottenuto migliori risultati rispetto all’Aflibercept: recuperi visivi mantenuti fino a due anni, maggiore capacità di mantenere lo spessore normale della retina, meno pazienti con fluido intra-retinico. «È in fase tre lo studio di un altro farmaco, il Faricimab, che blocca non solo il Vgef ma anche un altro fattore di crescita, l’angiopoietina 2» aggiunge Bandello. «Due elementi che agiscono insieme nel causare l’instabilità vascolare».
La maculopatia si presenta in due forme: «secca» e «umida». Il primo sintomo della forma secca è l’accumulo dei cosiddetti «drusen», depositi proteici e glicemici tra la retina e la coroide (una lamina del bulbo oculare). Poi la sua evoluzione può seguire percorsi diversi. Può succedere che si entri in una fase «umida»: prima una crescita anormale dei vasi sanguigni della coroide che gonfia la retina e procura una visione distorta delle linee; poi, se lasciati a se stessi, i vasi si rompono e riversano sangue e siero sulla parte centrale della retina, la macula, dove uccidono cellule specializzate come i coni e i bastoncelli, compromettendo la visione centrale. Oppure la fase secca può degenerare in un tempo lungo (fino a 15 anni) con grave perdita di fotorecettori.
Oggi la cura della maculopatia in Italia ha due problemi. Primo: viene perso troppo tempo per la diagnosi. Se un paziente si rivolge al medico di base questi lo indirizza da un oculista che a sua volta lo manderà in un centro per fare l’esame di Oct (Tomografia ottica a radiazione coerente). «Basterebbe invece che il medico facesse fare il test della griglia di Amler, per il quale basta un foglio con un reticolo a righe verticali e orizzontali. Se il paziente vede una zona della griglia ondulata, sfocata o scura, allora dovrebbe indirizzarlo direttamente a un centro con i macchinari Oct» dice Massimo Ligustro, presidente del Comitato Macula, l’associazione che dà voce ai pazienti.
Altro problema: farmaci come l’Avastin non sono passati attraverso studi che ne hanno certificato la sicurezza ma vengono prescritti lo stesso, a totale responsabilità dello specialista curante, per il loro costo nettamente inferiore a medicinali il Lucentis o l’Eylea (50 euro contro circa 300). E siccome alcune regioni, per raggiungere gli obiettivi di stabilità finanziaria, limitano le opzioni terapeutiche disponibili, i pazienti devono spesso spostarsi per ottenere il farmaco più sicuro. «Emblematico il caso della Lombardia, dove nel luglio 2019 venne pubblicata una delibera in cui si definiva un quantum fisso del rimborso pari a 55,60 euro per singola somministrazione, limitando la libertà prescrittiva da parte dello specialista» dice Ligustro.
Nell’agosto 2020 una sentenza del Tar sul ricorso delle aziende produttrici dei farmaci anti Vegf ha annullato la parte della delibera che riduceva il rimborso delle terapie. Ma oltre a stabilire che ogni medico potrà prescrivere la cura che riterrà più appropriata, la sentenza sottolinea anche la necessità di attenersi al risparmio e motivare la scelta di prodotti più costosi in presenza di alternative valide. «Il timore di noi pazienti è che si continui a prescrivere farmaci meno sicuri in nome del risparmio» dice Ligustro. «Noi vogliamo poter scegliere, d’accordo con il medico, un farmaco più costoso ma anche più sicuro soprattutto quando la scelta permette di continuare una cura che ha già fornito i risultati desiderati».
