Ormai abbiamo capito che con la pandemia ancora così diffusa dovremo portarla a lungo. E mentre si moltiplicano modelli e tessuti (e anche qualche falsa promessa), è tempo di aggiornare il modo in cui la usiamo e ciò che ne sappiamo.
Quando tutto è iniziato, pensavano di indossarle per qualche mese e poi via. Ma, dopo un’illusoria pausa estiva, sono tornate su tutti i volti. E, un po’ come il coronavirus che devono tenere lontano, si sono moltiplicate in infinite varianti: tessuti fantasia, spessi o sottili, chirurgiche di vario colore (azzurre, rosa, bianche, nere…), quelle superfiltranti, con la valvola, addirittura in plexiglas. Chi ne indossa due, chi le butta via ogni giorno, chi le ricicla per settimane, chi le mette in lavatrice, chi compra solo le più glamour, chi le ordina online e chissà. Dopo un anno di pandemia, è tempo, insomma, di riaggiornare le nostre mascherine e l’uso che ne facciamo, visto che la speranza di liberarcene entro il 2021 è ormai ridotta al lumicino.
Va bene il tessuto. Oppure no?
La scorsa primavera, quando proprio non se ne trovavano, sono comparse le mascherine di comunità, ricavate spesso da scampoli di tessuto. E ancora oggi in giro ne ne vedono tantissime. Sono però oggetti dalle caratteristiche protettive sconosciute: «Non sono certificate, su di esse non sono stati effettuati i test di conformità, non sappiamo perciò quanto sia robusta la protezione» avverte l’epidemiologo Pierluigi Lopalco, docente di Igiene all’Università di Pisa. «E soprattutto adesso, con tante varianti in circolazione, non possono bastarci».
Uno, Due, tre, quattro strati…
Le mascherine di tessuto possono essere cucite con più strati ma in genere ne hanno uno, le chirurgiche tre (quello interno in polipropilene con capacità assorbente, quello intermedio in polipropilene con potere filtrante e lo strato esterno coperto da un trattamento idrofobo); le Ffp2 (KN95 e K95 – rispettivamente certificate in Cina e Usa) e Ffp3 ne vantano quattro (gli stessi ma più performanti, con uno strato filtrante elettrostatico e uno interno più delicato sulla pelle, con azione assorbente su espirato e saliva).
L’efficacia di ogni dispositivo è legata alla capacità protettiva per i flussi d’aria in entrata e uscita. Le chirurgiche, per esempio, garantiscono lo zero per cento di protezione per il flusso in entrata e il 90 per cento per quello in uscita: indossarla difende gli altri dal nostro contagio ma non viceversa. È anche detta «mascherina altruista» perché funziona se tutti la indossano.
La Ffp2 KN95 filtra in entrata il 95 per cento e in uscita il 100, mentre la Ffp3 KN99 il 98 in entrata e 100 in uscita. Invece le mascherine «egoiste», ossia le Ffp2 KN95 e FFp3 KN99 con valvola, proteggono in entrata rispettivamente per il 95 e il 98 per cento, in uscita solo il 20. La valvola migliora il comfort di chi la indossa facendo uscire il respiro ed evitando umidità e condensa, ma trasferisce i nostri «droplets» all’esterno.
«Gli strati non sono tutto quel che dobbiamo controllare» afferma Mario Lerario, dirigente della Protezione civile della Regione Puglia, che gestisce, a Bari, l’unica fabbrica pubblica italiana di Dpi. «Da un modello all’altro cambiano i tessuti e la capacità di aderire al volto. La prova di adesività facciale è fondamentale: se una mascherina lascia passare lateralmente l’aria non svolge bene il suo compito». Tutte hanno una durata, ma non è solo questione di tempo: «Quando sentiamo la respirazione più pesante vuol dire che la mascherina ha esaurito il suo effetto filtrante e dobbiamo gettarla» precisa Lerario.
L’ultima arrivata: la U-mask
Detta «mascherina dei vip» (costa circa 30 euro), ha uno strato interno auto sanificante attivo per 150-200 ore e, secondo i produttori, filtra il 98 per cento di ciò che viene da fuori. Ma nei giorni scorsi la Procura di Milano ha disposto il sequestro di alcuni esemplari per verificarne l’effettiva capacità filtrante, che secondo un esposto sarebbe in realtà inferiore, più o meno il 70 per cento. «Non può esserci approssimazione sul tema mascherine» taglia corto Leraio. «Nel nostro stabilimento abbiamo continui controlli. La sicurezza delle persone è insindacabile».
E se scelgo il plexiglass?
Le mascherine trasparenti in policarbonato o le visiere in plexiglass, come indicato dal Cts, non ci difendono dal contagio (vanno abbinate all’uso di quella chirurgica), poiché sulla superficie del materiale si possono depositare particelle virali – di un colpo di tosse o uno starnuto – libere di muoversi lateralmente e in senso longitudinale.
Quelle vere, quelle false
Produrre un Dpi non è così semplice: stabilimento, macchinari, tessuti, prodotto finale e sistema di gestione devono essere certificati da un ente di controllo: «Certo, esistono frodi anche su questo mercato, ma in Italia il controllo è molto rigido» assicura Lerario. «Il cliente può capire se sta acquistando un prodotto contraffatto o certificato guardando la marchiatura sul packaging e gli estremi del lotto di produzione. Sulle chirurgiche deve apparire la sigla EN 14683:2019, sulle FFp2 o ffp3 EN 149:2009». Mentre le mascherine di stoffa, non omologate all’uso medico né considerate dispositivo di protezione, hanno solo l’obbligo di garantire la sicurezza dei materiali, che non siano infiammabili o nocivi per la salute.
Rischio zero? impossibile
Se indossiamo un modello super, come una Ffp3 a quattro strati per un appuntamento di lavoro, siamo sicuri di aver eliminato tutte le fonti di contagio? Le mascherine isolano bocca e naso, ma proviamo a immaginare la circostanza: «Tutti indossano una Ffp3, al termine dell’incontro porgo una penna al mio interlocutore che non si è pulito le mani con il gel, firma, io la riprendo e mi stropiccio involontariamente gli occhi» spiega Lopalco. «In questo caso la mascherina ha protetto alla perfezione le vie respiratorie ma non le congiuntive, attraverso le quali e più spesso di ciò che pensiamo, avviene il contagio. Prima di scegliere la mascherina dobbiamo conoscere bene le modalità di trasmissione del virus». Il rischio zero, insomma, non esiste. Le occasioni di contagio sono tante come pure le possibilità di commettere un’imprudenza. «La mascherina è una barriera ma non invalicabile» prosegue Lopalco. Il rischio si abbatte con una combinazione di azioni. «Usarla serve se contemporaneamente limitiamo gli incontri, manteniamo le distanze, ci igienizziamo spesso le mani ed evitiamo luoghi affollati».
«Doppia» È più bello
Nel dubbio, doppia mascherina. Due di stoffa sovrapposte, oppure una chirurgica e una di stoffa, o anche una filtrante di tipo 2 o 3 e una di tessuto. Sono alcune delle combinazioni che si vedono sempre più spesso. Di recente le hanno indossate l’immunologo Anthony Fauci (che le consiglia a tutti) e il presidente americano Joe Biden alla cerimonia di insediamento. «Ogni dispositivo ha una sua capacità di filtraggio in uscita ed entrata» sostiene Lopalco. «Quando noi posizioniamo un filtro sopra un altro ne moltiplichiamo l’efficienza. Nel timore delle varianti più aggressive del virus, si predispone un’”armatura” più robusta contro il virus».
In lavatrice, con il bucato
Ovviamente sì, per quelle di stoffa. Ovviamente no, per tutte le altre in commercio. Che non sono state progettate per un riciclo: «Lavarle con l’alcol, per esempio, è una sciocchezza. L’alcol distrugge il patogeno ma potrebbe alterare o abbattere del tutto il potere filtrante, allargando i fori del tessuto composto di polimeri» risponde Lopalco. «La mascherina inoltre ha una capacità filtrante legata alle sue proprietà elettrostatiche, come i moderni panni cattura-polvere, che si esauriscono con il tempo. Sono strumenti usa-e-getta, mai pensati per utilizzi superiori a quelli certificati».
Gli irriducibili che invece no
Qualcuno proprio non ci sta. Perché la ritiene un’inutile «museruola». Oppure dannosa per la salute. Sulle mascherine, del resto, le fake news abbondano. Alcune sostengono che il loro uso frequente possa addirittura favorire il cancro, altri la disbiosi intestinale e la morte precoce dei bambini. Mentre i più sostengono che possano aumentare la concentrazione di anidride carbonica nel sangue. «Le molecole di CO2 sono minuscole, diversamente dalle goccioline di saliva che contengono il virus e non possono essere trattenute dal materiale traspirante con cui è fatta la mascherina» rassicura l’immunologo Andrea Cossarizza, ordinario di Patologia generale e immunologia all’Università di Modena e Reggio Emilia. «L’anidride carbonica è un gas composto da tre atomi, due di ossigeno e uno di carbonio, miliardi di volte più piccoli del virus. Se fosse vero tutti i chirurghi sarebbero già morti». Altri paventano danni al sistema immunitario, affermando che le mascherine impediscono all’organismo di riconoscere naturalmente virus e batteri. «Non è sempre così conveniente incontrare patogeni» dice Cossarizza. «Con i vaccini abbiamo la possibilità di far conoscere indirettamente al sistema immunitario e in tutta sicurezza il nemico da combattere». Anche la dispnea, che si manifesta con difficoltà respiratorie, è tra le condizioni che alcuni attribuiscono alle mascherine. Ma la sensazione di mancanza d’ossigeno, come dimostra uno studio su Annals of the American Thoracic Society, è quasi sempre un disagio psicologico. «Più comunemente» sottolinea Cossarizza «il malessere è legato ad ansia o claustrofobia».
Mascherati anche nel 2022?
La mascherina resterà anche in futuro. Almeno è ciò che si augurano gli scienziati: «Dopo il Covid-19, anche solo quella di stoffa durante la stagione influenzale e nei luoghi chiusi potrà servire» conclude l’epidemiologo Lopalco. «Sarà, oltre a una protezione personale, un segnale di buona educazione e rispetto per gli altri».
