Ingobbiti sulle scrivanie di casa a fare telelavoro (improvvisato), reduci dalla sedentarietà del lockdown e, poi, dal frenetico ritorno all’attività fisica, ci ritroviamo con la colonna lombare dolente e male impostata. Conviene ascoltare gli esperti, per raddrizzare
abitudini e fisico.
Curvi sotto il peso del lockdown. Lungi dall’essere solo una metafora, la lunga inattività alla quale la pandemia da Covid-19 ci ha costretti ha causato gravi danni alla schiena di molti di noi. Anzi, moltissimi, secondo una ricerca di Assosalute (Associazione nazionale farmaci di automedicazione che fa parte di Federchimica): a quanto pare un italiano su due dichiara di aver sofferto di mal di schiena assai più spesso del solito, durante gli ultimi mesi.
E se consideriamo che già prima della forzata clausura, il 73% lamentava dolori di natura posturale (schiena al primo posto, poi collo e articolazioni degli arti inferiori) il quadro è desolatamente completo: la popolazione italiana restava già dritta a fatica nell’era pre-Covid, ma adesso, tra il prolungato smart working che esalta la nostra propensione alla sedentarietà, alle posture errate e agli sport sospesi, ripresi o iniziati all’improvviso dopo il «liberi tutti», ci ritroviamo con la schiena a pezzi.
«A risentire di più della quarantena casalinga sono stati i neofiti della pratica sportiva, che si sono buttati di colpo nell’attività fisica per tornare più o meno in forma» dice Roberto Pozzoni, responsabile del Centro di Traumatologia dello sport dell’IRCCS Istituto ortopedico Galeazzi, a Milano. «Molti hanno fatto ricorso a un fai da te poco progressivo, che inseguiva la performance in breve tempo. Ma iniziare ad allenare la muscolatura addominale senza sapere bene come procedere causa un sovraccarico su tutta la colonna vertebrale, e in particolare sull’ultimo tratto del rachide, il lombare. In queste settimane stiamo visitando tantissimi soggetti con problemi di questo tipo, fortemente invalidanti».
E dire che sarebbe bastato poco: gradualità negli esercizi, tutorial da seguire pedissequamente (tra l’altro online se ne trovano parecchi, tutto sta nel saper scegliere i più seri) e soprattutto la parola d’ordine di chi fa sport in casa: guardarsi allo specchio: «Osservarsi mentre si compiono gli esercizi, siano addominali, squat, piegamenti o altro» continua Pozzoni «è fondamentale: solo comprendendo la corretta postura da mantenere si riescono a ottenere benefici, altrimenti arrivano i danni».
Ma non si pensi che soltanto i neofiti dello sport abbiano avuto guai. I fanatici della corsetta o della corsa in bici nel weekend non se la sono passata granché meglio: «Chi ha dovuto interrompere l’attività fisica da un giorno all’altro ha subìto ripercussioni altrettanto pesanti di chi ha iniziato a fare sport dal nulla» assicura Guido Molinero, direttore Riabilitazione specialistica dell’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo. «Questo perché l’improvviso stop delle attività porta nell’arco di poco tempo a ciò che noi chiamiamo deattivazione muscolare: dopo 30-60 giorni di inattività, in pratica, si perde l’allenamento dell’ultimo anno, oltre a massa muscolare e reattività neuromotoria. Se poi l’attività fisica era stata prescritta già come indicazione terapeutica per qualche patologia della colonna, sia di tipo degenerativo che muscolare, è ovvio che il problema può solo peggiorare».
A questo scenario poco rassicurante si aggiunge il fatto che non di sola schiena si è sofferto a causa del lockdown: l’inattività ha fatto male anche alla delicate articolazioni degli arti inferiori, sempre a causa della perdita della reattività: «Per maratoneti e ciclisti» prosegue Pozzoni «molti dei quali lavorano essenzialmente sulla propriocettività, cioè sul fatto di governare le articolazioni e migliorare la propria sensibilità sportiva semplicemente appoggiando il piede a terra o sui pedali, l’interruzione o i cambiamenti nel modo di allenarsi ha causato problemi: tra questi, l’improvvisa comparsa di sintomi e segni clinici che hanno interessato il ginocchio, la caviglia, e comunque gli arti inferiori, quelli che risentono della forza di gravità e del peso corporeo».
A tutto ciò si aggiunga il fatto che, nelle settimane in cui il Covid-19 ha messo a dura prova il Sistema sanitario nazionale, i pazienti avevano ben poca voglia di frequentare studi medici per semplici mialgie, temendo i contagi. Risultato? L’automedicazione: «Moltissimi pazienti alle prese con mal di schiena o dolori muscolari» prosegue Molinero «si sono rivolti ai farmaci da banco, ai cerotti medicati delle farmacie, che altro non sono se non un concentrato di antinfiammatori non steroidei rilasciati per via transcutanea. In alcuni casi riducono i sintomi, ma possono nascondere problemi più gravi».
Altri ancora, nella frenesia della nuova attività fisica che avrebbe dovuto – nell’immaginario collettivo – rimediare a sedentarietà e sovrappeso, hanno dimenticato un apparato se possibile ancora più importante di quello muscolo scheletrico: quello cardiocircolatorio. «Non misurando la frequenza cardiaca mentre si fa sport si può andare incontro a problemi gravi, soprattutto per i pazienti che soffrono di ipertensione o di cardiopatia» conclude Molinero. «Durante l’attività fisica, specialmente se improvvisata, è fondamentale ricavare i parametri cardiocircolatori usando i frequenzimetri, per essere sicuri di rimanere all’interno di un determinato range di lavoro muscolare e al di sotto della soglia aerobica, senza forzare sulla frequenza cardiaca».
Ora che reparti ospedalieri e studi specialistici stanno tornando alla normalità, come si rimedia ai danni collaterali della pandemia? «Rivolgersi allo specialista per inquadrare al meglio la propria situazione e non sottoporsi a esami inutili» consiglia Pozzoni. «Mi spiego meglio: quando ci si trova davanti a patologie della colonna o degli arti inferiori, alcuni test possono non essere rilevanti. L’ecografia, per esempio, non ci aiuta a indagare le alterazioni meccaniche dell’asse di carico delle ginocchia. Meglio rivogersi subito all’ortopedico e risparmiare tempo e soldi».
Anche perché, quando si parla di mal di schiena, lo spettro dell’intervento chirurgico non è certo remoto: secondo i dati del Ministero della Salute, dal 2016 al 2018 gli interventi di artrodesi (cioè l’intervento che «blocca» tramite placche le vertebre), la soluzione estrema alla quale si ricorre quando falliscono le procedure mini invasive, sono aumentate del 21 per cento nel settore privato e del 9 in quello pubblico. Anche la Sicv, Società italiana di chirurgia vertebrale, ha più volte lanciato l’allarme sull’«overtreatment» chirurgico.
Un business (i rimborsi sono molto alti) sospetto? «Al Papa Giovanni XXIII, dove io lavoro, i neurochirurghi sono sempre stati e sono tuttora molto restii all’intervento» conclude Molinero. «Ciò non toglie che i dati nazionali siano francamente preoccupanti: in effetti ci sono strutture e regioni dove c’è un eccessivo ricorso alla chirurgia. Cerchiamo di essere molto chiari: ci sono casi, per esempio di tumori della colonna, di stenosi conclamata con deficit neurologici, dove l’intervento chirurgico è l’unica soluzione possibile e lo vedono subito tutti, a iniziare dal medico di base fino al fisiatra e al neurochirurgo».
Diverso è il mal di schiena che si può ricondurre solo a un danno degenerativo, che sia discale, da spondilo-disco-artrosi, da sindrome delle faccette o da altro, precisa l’esperto. «Ci sono passaggi terapeutici, infiltrazioni dei punti trigger, blocchi anestetici delle faccette articolari, analgesia epidurale, che possono essere sperimentate prima di arrivare a un intervento di artrodesi. Ma se il paziente è sofferente da un anno, con dolori che si irradiano, con tentativi di terapia non andati a buon fine, il ricorso alla chirurgia è doveroso».
