Creato da scienziati inglesi, è un anticorpo monoclonale che, con due iniezioni annue, ne riduce i livelli in chi ce l’ha troppo alto. Ma non è detto che dobbiamo tutti prendere i farmaci. E anche sui valori da mantenere, c’è margine di manovra…
Nel club della mezza età (tutt’altro che esclusivo) si entra a partire da un numero: 200. È la soglia su cui si inizia a scivolare da un vigoroso colesterolo da «giovani adulti» a quello poco raccomandabile dei 50 anni. Il dubbio di averlo fuori posto diventerà lo spauracchio di una salute fragile, di un logorio sotterraneo e inarrestabile nelle nostre arterie.
Da lì inizierà un’ansia da confronto cui sarà difficile sottrarsi. Scopriamo con disappunto che il collega di scrivania, sovrappeso e sedentario, ce l’ha perfetto. Com’è possibile? Di colpo ci interessiamo del riso rosso fermentato, scrutiamo la pubblicità degli yogurt che dicono di abbassarlo, iniziamo a pensare che forse anche noi, come il nostro vicino di scrivania, dovremmo prendere le statine (è per quello, ovviamente, che il suo era fermo a 182). Ma del colesterolo, poi, che ne sappiamo davvero? Poco, in effetti. Che se lo abbiamo basso, meglio stiamo. Ah, sì: che ne esiste uno «cattivo» da ridurre il più possibile; e uno «buono», che se è alto va bene perché è protettivo. E adesso che in Gran Bretagna hanno sperimentato un «vaccino» contro il suo eccesso molesto, siamo tutti più felici.
Un vaccino? Sarebbe fantastico. Anche se, a leggere bene, la faccenda è un po’ diversa. La Novartis, che lo produce, lo ha definito così perché è un termine facile e di sicura presa, e anche perché si tratta di due iniezioni all’anno: in realtà è un farmaco, inclisiran, mirato per chi ha un’ipercolesterolemia familiare resistente alle statine. Una percentuale minoritaria rispetto al grosso della popolazione. Come funziona l’inclisiran? Non attiva la risposta immunitaria, come farebbe un vero vaccino, ma interferisce con l’iperproduzione del colesterolo nocivo, l’Ldl. Lo spiega meglio di noi Cesare Fiorentini, cardiologo del Centro cardiologico Monzino di Milano: «È stato definito vaccino per la modalità di somministrazione, ma ha un meccanismo d’azione diverso: è un anticorpo monoclonale che, agendo su una proteina, la Pcsk9, abbassa l’Ldl quando è davvero molto alto, sopra i 400 per intenderci».
Dopo i primi test su poco più di un centinaio di pazienti, i National Health System inglesi faranno ora partire una sperimentazione su circa 40 mila persone. E se i risultati, da valutare anno dopo anno, saranno positivi, è probabile che il farmaco abbia prospettive di mercato ben più ampie di quei pochi pazienti con un colesterolo fuori controllo di tipo ereditario. Nel potenziale serbatoio d’acquisto potrebbero entrare anche i cinquantenni con 300 di colesterolo che mal sopportano le statine, o non ne hanno benefici. Il bersaglio dell’inclisiran, ovvero quella proteina dalla sigla breve (ma difficile da ricordare) è già preso di mira, oggi, da farmaci biologici: pure questi con nomi impegnativi, evolocumab e alirocumab, intervengono quando le statine non funzionano. «Anch’essi sono iniezioni, da fare ogni settimana oppure ogni 10 giorni, quindi scomodi da assumere» precisa Fiorentini. «Una nuova terapia due volte l’anno sarebbe un bel vantaggio».
Il rischio sarà farsi un paio di iniezioni e poi via libera a formaggi, burro, lardo, uova… («tanto sono vaccinato»). «In effetti il rischio c’è» ammette l’esperto. «Quante volte in ambulatorio sentiamo la domanda “dottore, ma non esiste una cura che mi tiene giù il colesterolo così che poi mangio quel che mi pare?”». In attesa della siringa che ci libererà dal male, oggi la cura d’elezione sono le statine. Molecole senza dubbio fenomenali, in grado di ridurre sia il rischio di infarto sia il processo infiammatorio alla base delle malattie cardiovascolari. Potenti ed efficaci (anche se non in tutti) al punto da costituire spesso una scorciatoia: prescritte con disinvoltura da medici che si fanno prendere la mano, richieste con entusiasmo da pazienti impazienti. Certo, sappiamo tutti che prima viene la prevenzione, l’alimentazione corretta. Ma richiede costanza. E magari, dopo tanti sforzi, quella soglia di 260 di colesterolo è ancora lì a farsi beffe di noi. Una statina, e non ci si pensa più.
Ecco, parliamo di livelli. Le linee guida danno come soglia da non superare i 200 mg/dl. Dentro questo numero, il colesterolo Ldl dovrebbe stare sotto i 130. Secondo gli americani, sempre un po’ zelanti in questi casi, addirittura sotto i 70 in chi ha avuto un infarto. Davvero? Calma. «Il colesterolo è sicuramente uno dei fattori di rischio per il cuore, ma da qui a farlo diventare l’unico killer ce ne passa» riflette il cardiologo Marco Bobbio. «Come a volte capita, si accentuano i rischi e si diffonde un allarme esagerato. Con il colesterolo si è creato negli anni un eccesso di esposizione mediatica. In chi ha già avuto un infarto, tenerlo sotto controllo previene un’eventuale recidiva. Ma più è basso il rischio coronarico, più sarà elevato il numero di persone da trattare con i farmaci per ridurre un infarto».
Gli esperti che, ogni tot anni, mettono a punto le linee guida sui livelli da non superare (nel colesterolo, nella pressione…), hanno quasi tutti legami di interesse con le multinazionali, e ne sono fortemente influenzati. È da tenere presente, senza per questo indignarsi. «Gli esperti chiamati a definire i criteri di trattamento sono necessariamente persone che hanno interessi con le industrie, è inevitabile» sostiene Bobbio. «Chi ha non ha rapporti con le aziende è poco competente in quel settore, o non se ne è mai occupato. Poi, certo, se si aumentano i soggetti da trattare, compresi quelli sani, cresce anche enormemente il fatturato».
Alla fine quel numeretto, 200 di colesterolo totale, preso così significa poco: «Il tema delle soglie è un punto delicato, in genere non ci si accontenta mai» sostiene Fiorentini. «Nella pressione, per esempio, si dice che più è bassa meglio è, salvo poi collassare per strada. Nel colesterolo succede un po’ la stessa cosa. Ma il suo valore va modulato sul profilo di rischio individuale, tenendo conto di altri fattori: ipertensione, fumo, eventi cardiaci precedenti…». Una curiosità, professore: lei di colesterolo quanto ha? «L’ultima rilevazione l’ho fatta stamattina: 178». Ineccepibile.
Qualche anno fa l’industria provò a mettere a punto farmaci per potenziare quello «buono». Ma fu un flop, e non se ne parlò più. Nel frattempo si capì che un modo per tenere alto il colesterolo Hdl, protettivo, esiste: la mattina presto, ma va bene anche la sera tardi, dopo il lavoro e prima dei pasti, ci si infila una tuta, un paio di sneakers, e via. Mezz’ora al parco, musica nelle orecchie e cane al seguito, e l’Hdl va su. Non solo. Il tutto, dicono i medici, trascina in basso i trigliceridi. Se poi si butta via la sigaretta, ancora meglio. Risultati garantiti, effetti indesiderati non pervenuti.
Così l’Intelligenza artificiale mapperà il nostro sistema immunitario
È la nostra prima linea di difesa, e la migliore che abbiamo. Combatte virus, batteri, parassiti, cellule del nostro stesso organismo che, prese da manie di grandezza, si trasformano in cellule tumorali fuori controllo. Non sempre è efficace, certo. Talvolta il sistema immunitario non riesce ad averla vinta contro i «nemici» e, a tutt’oggi, medici e scienziati non sanno perchè. Come mai un malato di cancro ce la fa e un altro soccombe? Perché su un paziente l’immunoterapia (una delle più promettenti armi in ambito oncologico) funziona e su un altro fallisce? Perché il sistema immunitario non riesce a prevenire una malattia devastante come l’Alzheimer?
Domande fondamentali e finora senza risposta. Capire in tutta la sua complessità quella meravigliosa macchina che è il sistema immunitario è delle maggiori sfide della medicina. Le difese del nostro organismo sono un universo popolato da un’infinità di cellule con nomi, compiti, interconnessioni incredibilmente intricate. È un sistema miliardi di volte più complesso del genoma umano, la cui mappatura (nel 2000) segnò una svolta storica. Sarà mai possibile mappare, in modo analogo, il sistema immunitario così da comprenderne meglio il funzionamento?
L’impresa, improba fino a pochi anni fa, è ora possibile grazie all’avvento dell’intelligenza artificiale. È l’obiettivo della partnership tra Microsoft e l’azienda di Seattle Adaptive Biotechnologies: decodificare il sistema immunitario per rilevare, attraverso un semplice esame del sangue, un’ampia gamma di malattie, infezioni, disturbi autoimmuni e tumori fin dal primo stadio. Come si farà? Per capirlo, facciamo un passo indietro: il sistema immunitario «adattativo», ossia quello che impara a combattere ogni infezione che ci colpisce (l’altro è quello innato) è formato, semplificando molto, da due tipi di «soldati»: i linfociti T e i linfociti B. Ogni linfocita T ha, sulla sua superficie, un recettore che mira e colpisce uno specifico bersaglio, chiamato antigene. Un virus o un batterio, per esempio, rappresentano degli antigeni.
L’idea alla base dello sforzo Microsoft/Adaptive Biotechnologies è ottenere, grazie al machine learning e deep learning dell’intelligenza artificiale, una mappa di tutti i recettori dei linfociti T e dei loro antigeni, ossia i «nemici» che, negli anni, hanno incontrato e combattuto. In altre parole, la storia del sistema immunitario di ogni persona racchiusa in una goccia di sangue, analizzata da sistemi di calcolo ultrapotenti. Le battaglie passate, ma anche la situazione attuale: il sequenziamento del sistema immunitario potrebbe rivelare quali malattie, o entità estranee, l’organismo sta affrontando e su cosa sta allenando i muscoli, per così dire.
Questa mappa universale dei recettori dei linfociti T e degli antigeni dovrebbe permettere diagnosi più accurate e tempestive a partire da un semplice prelievo (accessibile quindi anche in paesi in via di sviluppo). Decodificare il sistema immunitario sarà, questa almeno è la grande promessa, un formidabile passo avanti per curarci meglio e, soprattutto, per evitare di ammalarci.
Daniela Mattalia
