Reportage nella comunità cinese della città toscana. Dove nei mesi scorsi in molti sono andati a vaccinarsi in Cina. Per tornare, una volta rientrati, alle abitudini pre-Covid. Comprese quelle negative.
Vaccino. Non c’è parola più pronunciata nel mondo. E non fa eccezione Prato, periferia di Pechino, dove il vaccino ha cominciato a circolare da settembre, e le mascherine hanno iniziato a essere indossate con meno frequenza, infine non di rado abbandonate. E così, dopo quasi un anno di lockdown autoimposto, i 26 mila cinesi (registrati) che affollano il capoluogo toscano hanno prima cominciato a ripopolare le strade, tornando alle abitudini pre-Covid, scegliendo poi di non rinunciare a festeggiare.
Per Capodanno si erano riuniti in 120 in un ristorante ospitato in un capannone: la festa è finita alle 21 con 50 mila euro di sanzione (400 per ogni invitato). Non è andata diversamente a Natale, quando la polizia municipale ha multato 60 cinesi che, senza mascherina, affollavano due locali di connazionali fra musica alta, balli e ovviamente nessun rispetto per le normative. Anche oggi, camminando per la Chinatown pratese, si rimane colpiti dalle scarse pratiche igieniche adottate dalle pescherie come dai ristoranti, ma anche dalle persone sedute ai tavolini intente a mangiare a ogni ora del giorno (in barba a qualsiasi Dpcm).
«Il merito» dice una parrucchiera, che fa parte della comunità ma vuol restare anonima «è del vaccino. Da quando è disponibile in Cina in tanti sono andati a farlo, e così lentamente stiamo tornando alla vita». Le fa eco il dottor Gennaro Brandi, dal 1970 storico farmacista di via Pistoiese, cuore della comunità e per alcuni unico luogo reale di scambio e contatto con gli italiani. «Sono mesi che i cinesi tornano a casa per vaccinarsi. Adesso l’atmosfera è cambiata. Loro hanno fatto un lockdown prima del lockdown. Ma noi, qui in farmacia, che qualcosa non andava ce ne eravamo accorti l’anno scorso. A dicembre, molto prima che si iniziasse a parlare di Covid-19, le persone per strada si erano fatte più rare, fino a sparire».
La conferma arriva dal personale della farmacia, dove erano impiegati sei dipendenti cinesi. «All’improvviso, tutti insieme, a gennaio, hanno smesso di venire al lavoro. Due si sono perfino licenziati, pur di non uscire di casa. Quando abbiamo provato a chiedere le motivazioni, ci hanno fatto capire che erano direttive del Paese d’origine».
Ancora più diretto è Paolo, che ha un’attività poco distante. «I capoccia locali hanno ordinato ai loro connazionali di barricarsi in casa. Letteralmente». Il risultato sono stati zero contagi durante la prima ondata della pandemia e, secondo gli ultimi dati, sono solo 100 i cittadini cinesi che avrebbero contratto il Covid a Prato: meno della metà dei casi registrati quotidianamente in città, tanto che perfino la Asl ha chiesto lumi al console. La risposta? Un rigoroso autoisolamento. Non solo, ribadiscono i più maliziosi, che parlano anche di dosi illegali – e parecchio costose – arrivate dalla Cina e distribuite segretamente.
Di certo è che adesso la situazione a Prato è completamente cambiata. «Molti miei amici» racconta Luca, che fa il cameriere «hanno trascorso le feste natalizie in Cina, per fare in ospedale il vaccino della Sinopharm. È in due dosi, è somministrato direttamente dal governo e costa 60 euro. Si tratta di un investimento temporale ed economico non indifferente, ma noi cinesi sappiamo bene di essere l’ultima ruota del carro: a noi il vaccino non toccherà che alla fine del 2021, e dunque ci arrangiamo».
Il sentimento diffuso nella comunità è che, a causa di una netta cesura che c’è a Prato tra italiani e orientali, anche quando si chiama solo per avere informazioni da un ospedale o dalla Asl, spesso e volentieri non si ottengano risposte. Tanto vale allora «investire» nel rientro a casa. Poco importa che le tariffe dei voli siano aumentate in modo esponenziale – se prima andare e tornare da Pechino costava 500 euro, ora solo una tratta supera i mille – e che a regolamentare gli ingressi in Cina ci siano numerosi diktat. È necessario fare un tampone rapido entro 48 ore dalla partenza (il cui costo si aggira intorno ai 200 euro), sottostare a una quarantena forzata all’arrivo di due settimane in ogni città in cui ci si ferma, e installare un’app sul telefono che monitora tutti gli spostamenti.
«Si tratta di una sorta di controllo permanente sul proprio stato di salute» continua Luca. «Ogni cittadino viene contraddistinto da uno status che può essere verde, giallo o rosso. Nel primo caso può andare ovunque, nel secondo deve restare a casa, con il rosso è obbligato a trascorrere due settimane in un hotel Covid. Per poter accedere a qualsiasi struttura, privata o pubblica, bisogna mostrare la propria situazione tramite la app».
Zero privacy, moltissima sicurezza. Qualcosa del tutto inapplicabile in Italia, come notato anche il consigliere comunale sino-pratese Marco Wong: «Parliamo di un contesto sociale diverso e sarebbe stato improponibile adottare misure simili qui». Misure a cui invece i cinesi si sottomettono volentieri, come spiega Anita Zhou: «Sono dovuta tornare a casa, a Wenzhou, per questioni familiari. Per un viaggio che normalmente durava 12 ore, ho impiegato quasi un mese: dopo essere partita da Fiumicino, una volta arrivata a Pechino ho dovuto fare la mia prima quarantena in hotel, e la seconda una volta arrivata a destinazione. Ma non è stato un problema: se è un modo per prevenire la pandemia, sono ben contenta di sacrificare il mio tempo».
In nuce si intravede una questione spinosa ben sintetizzata da Federico, che ha un’agenzia viaggi: «Il problema è che se andremo avanti così non ci saranno più cinesi che verranno in Italia, e per il turismo sarà un disastro. Ci guardano come fossimo del terzo mondo». La crisi dunque non risparmia il quadrilatero orientale – ne stanno facendo le spese ristoranti e organizzatori di grandi eventi, come matrimoni e feste – eppure nella zona produttiva del Macrolotto i capannoni, come sempre, sono una sinfonia di produzione: macchine da cucire, auto che caricano in grande quantità capi che si fregiano di essere «Made in Italy», ma anche distributori che diventano un punto di raccolta. Dove un tempo c’erano i bar, adesso ci sono i retrobottega per riunirsi e parlare. Qui incontriamo L., che ha una fabbrica con 50 dipendenti e produce abbigliamento. «Ho mandato mia moglie e i miei figli in Cina» racconta. «Meglio non rischiare di ammalarsi, e mandare a scuola i bambini lì, con i nonni. Anche io fra qualche giorno partirò, e ovviamente mi vaccinerò».
Sono numerose le famiglie che da Prato sono partite, spesso con figli minori. «Non abbiamo ancora numeri certi» commenta l’assessore comunale alla Cultura Simone Mangani «ma è un problema in crescita che riguarda numerosi nuclei che, all’incertezza italiana, hanno preferito le garanzie cinesi». Nel frattempo, la diffidenza italiana è in crescita. Si teme per una data che i cinesi hanno cerchiato in rosso sul calendario: il Capodanno orientale, venerdì 12 febbraio. «Più di qualcuno» spiega Federico, il titolare dell’agenzia di viaggi «già so che sta provando a organizzarsi». In gran segreto, ovviamente. E senza mascherine.