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Alzheimer, perché va ripensato

Alzheimer, perché va ripensato

Finora i farmaci contro la demenza non hanno dato risultati decisivi. Ad aprile verrà forse approvato un nuovo anticorpo monoclonale, ma non è detto che funzioni più degli altri. Forse, dicono gli scienziati, puntare tutto su un solo bersaglio (le placche dentro i neuroni) non è la strada giusta. Come suggerisce lo strano caso di una paziente con il cervello pieno di «grovigli», ma senza declino cognitivo…


Da trent’anni, un maleficio genetico colpisce un’intera famiglia colombiana di Medellin: nel loro sangue scorre una mutazione genetica che li rende, all’età di 40-50 anni, vittime di una forma implacabile e precoce di Alzheimer. Con crudeli paradossi: capita che a volte i genitori anziani, scampati alla mutazione, debbano assistere i figli di mezza età la cui demenza li ha già resi incapaci di sopravvivere a se stessi.

Da altrettanto tempo, gli scienziati di mezzo mondo studiano con test genetici, analisi e imaging cerebrali i seimila membri della sfortunata comunità sudamericana. Ma in questa sorta di fiaba dark, ecco arrivare una signora di 73 anni in cui la mutazione genetica ha puntualmente fatto la sua comparsa, senza però danneggiarne le facoltà mentali. Il suo cervello è invaso da una quantità impressionante di placche di beta-amiloide, la proteina che forma inestricabili grovigli nei neuroni. Ma le funzioni cognitive della donna non sembrano risentirne granché.

«Nessuno più di lei dovrebbe essere affetto da demenza» ha detto a Newsweek Eric Reiman, neuroscienziato al Banner Alzheimer’s Institute di Phoenix, che studia i casi clinici di Medellin da parecchio tempo. «Ma presenta solo un lieve declino cognitivo». Come se una madrina benevola, quando era in culla, avesse annullato la maledizione del suo Dna. Di fatto, è un po’ così: la signora possiede un’altra mutazione genetica, questa volta benigna, che la preserva dalle devastazioni della malattia.

Il suo caso singolare sta diventando centrale nella visione di questa patologia. Significa che quella mutazione protettiva (e altre simili) potrebbe ispirare nuove terapie basate su ciò che dicono i geni. E, soprattutto, che le placche sono solo uno fra i tanti fattori che, nel fragile equilibrio di un cervello che invecchia, ne influenzano il destino.

Sin dall’inizio, la beta-amiloide è stata considerata l’innesco di quella catastrofe cerebrale che è l’Alzheimer. Nel ruolo del «cattivo» si è poi aggiunta la proteina tau. Di fatto, però, quasi tutti i (pochi) farmaci degli ultimi decenni hanno mirato a questo bersaglio per rallentare o fermare i danni ai neuroni.

Ad aprile, la Fda americana dovrebbe/potrebbe approvare un nuovo principio attivo, l’aducanumab, che punta anch’esso a disaggregare le placche di beta-amiloide. Se davvero desse il via libera, sarebbe il primo farmaco in commercio dopo 17 anni di stasi: l’ultimo medicinale approvato, nel 2003, è stata la memantina (e con scarsa efficacia). Ma l’altalena di aspettative, delusioni e rinnovate speranze dietro i risultati dell’aducanumab ci dicono già che neppure questo, probabilmente, sarà «the magic bullet», il proiettile magico. La Biogen, che lo produce, nel 2016 annunciò che il suo farmaco aveva ridotto le placche e il declino mentale in un piccolo campione di pazienti; l’anno successivo, su tremila volontari arruolati, i risultati furono meno chiari, tanto che l’azienda interruppe la sperimentazione. Dopo qualche mese, l’annuncio a sorpresa: l’aducanumab funzionava, almeno su metà dei pazienti, bisogna semplicemente aspettare un po’ più a lungo per vederne i benefici.

Non tutti sembrano d’accordo (lo scorso novembre un panel indipendente della Fda ha espresso forte perplessità sulla sua reale efficacia) ma l’attesa sul farmaco resta molto alta. «Quella dell’Alzheimer è stata una vicenda complicata, sin dall’inizio» fa notare Matteo Borri, storico della scienza e autore del libro Storia della malattia di Alzheimer (Il Mulino). Borri si è appassionato a questa patologia dopo aver svolto il servizio civile nelle case di cura, dove i pazienti con demenza erano tanti. «Da lì si è acceso il mio interesse» continua. «Quando, nel 1906, il dottor Aloysius Alzheimer vide, nel cervello della sua paziente Auguste Deter morta con una strana forma di demenza, “gomitoli” di una sostanza sconosciuta nel citoplasma dei neuroni, non sapeva bene ciò che stava osservando. Che fossero accumuli di beta-amiloide lo si scoprì molto dopo. A quell’epoca ci si concentrava sulla sifilide: una donna che vaneggiava, chiusa in manicomio, non attirava grande interesse clinico. La prima pubblicazione sulla beta-amiloide è del 1975, su Pub-Med, ma la vera ricerca inizia a fine anni 80. Quanto ai vetrini preparati da Alzheimer, col tessuto del cervello di Auguste Deter, solo dal 2001 sono diventati oggetto di studio».

La scoperta di quella proteina e della sua «complice» (la tau) fu entusiasmante. Trova l’assassino e gli impedirai di uccidere ancora. Ma, come si è ormai capito dopo 40 anni di ricerche, disgregare le placche che soffocano i neuroni non significa cambiare il destino dei malati: identità, memoria, senso del sé, tutto questo non torna più. L’involucro di ciò che un tempo era una persona rimane vuoto. «È dalla fine degli anni 50 che si studia la correlazione tra proteine e Alzheimer. A oggi sono più di 26 mila le pubblicazioni in ambito farmacologico; ma manca ancora un’eziologia definitiva, cioè l’elenco delle cause certe» conclude Borri.

La mancata efficacia dei farmaci dipende forse, riflettono gli scienziati, dal fatto che vengono somministrati quando ormai i danni sono fatti. «I risultati più promettenti vengono dagli anticorpi monoclonali che agiscono tutti con un meccanismo simile» chiarisce Giuseppe Di Fede, neurologo all’Unità Operativa di Neurologia 5 e Neuropatologia dell’Istituto Besta di Milano. «Riducono le placche nel cervello senza tuttavia rallentare il decorso della malattia. Una delle ipotesi è, appunto, che si intervenga troppo tardi: la placca è l’evento finale di un complesso meccanismo che, a partire da una singola molecola, conduce alla formazione di aggregati neurotossici via via più complessi. Questo processo comincia molto prima dei segni clinici e può durare decenni. Ma noi possiamo riconoscere la malattia solo quando i danni sul cervello si sono già instaurati; in questa fase il trattamento è poco efficace».

E allora? Speriamo nel farmaco che sarà – forse – approvato ad aprile? Sì e no. Nei giorni scorsi la Eli Lilly ha annunciato i risultati della fase 2 di uno studio pilota su un altro anticorpo, principio attivo donanemab, in grado (almeno sui primi pazienti) di ridurre non solo le placche ma anche di fermare il declino cognitivo. E potrebbe essere qualcosa di più dell’ennesima promessa. «La cosa interessante di questo anticorpo è che è diretto verso una forma particolare di beta-amiloide, più rappresentata dentro le placche, che subisce alcune modifiche biochimiche» specifica Di Fede. «Il donanemab sembra in grado di attaccarla in modo mirato. E il trattamento pare accompagnarsi a un miglioramento delle funzioni cognitive, anche se questo andrà confermato da studi più estesi».

La visione finora condivisa (sia pure con dubbi crescenti) che identifica nelle due proteine le sostanze chiave dell’Alzheimer, insomma, non è da rinnegare. Ma va inserita in un quadro più ampio. E la signora colombiana che non ha «perso la testa» nonostante una quantità record di placche indica un’ottima direzione da seguire. La sua mutazione genetica è lì, pronta a raccontare una storia un po’ diversa. Mentre, fino a qualche anno fa, i geni implicati nell’Alzheimer erano una manciata, in gran parte legati alla forma precoce che «rosicchia» il cervello ben prima della vecchiaia, ora sono oltre 500 le sequenze genetiche potenzialmente correlate alla malattia. E una cinquantina sembrano essere possibili bersagli terapeutici.

Se è impossibile ricreare in un organismo la mutazione che fa da scudo, è però ragionevole pensare a molecole che ne replichino l’azione. «La variante osservata nella donna colombiana non è l’unica» spiega Di Fede. «Qualche anno fa il nostro gruppo del Besta ha identificato una mutazione protettiva nel gene per la beta-amiloide, la cui sigla è A673V, e sulla quale stiamo lavorando, insieme all’Istituto Nario Negri nella prospettiva di una futura terapia». Nella stessa posizione, all’interno del Dna, nel 2012 è stata individuata nella popolazione islandese un’altra variante positiva. Modelli di protezione «ideati» dalla natura, per così dire, che si possono copiare. Sarà forse possibile, un domani, intervenire sui pazienti con la terapia genica, somministrando loro il gene che riduce il rischio. Oppure fabbricare una molecola che contenga quella mutazione e darla come un farmaco. Ancora: agire sull’Rna messaggero (sì, quello degli attuali vaccini contro il coronavirus) per bloccare le istruzioni con cui l’organismo fabbrica la beta-amiloide o la tau.

Altre indagini, infine, si concentrano su come proteggere le sinapsi (i ponti tra i neuroni), o come ridurre i fenomeni microinfiammatori che favoriscono l’innesco della malattia. «In realtà, nonostante il recente disinvestimento di alcune grandi case farmaceutiche, i laboratori non hanno mai smesso di lavorare» assicura Di Fede. «Attualmente sono in corso test su circa 120 molecole in diverse fasi di sviluppo». I costi di ricerca e produzione sono ovviamente altissimi, ma «la pillola salva-cervello», se e quando arriverà, sarà la scoperta del secolo, con un ritorno economico gigantesco. E la paziente di Medellin, che si fa beffe delle sue tante placche cerebrali, non farà nemmeno più notizia.

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