- SE QUESTO È UN MINISTRO – A tre mesi dalla chiusura delle scuole per l’emergenza Covid, ancora non si sa quale sarà il futuro degli studenti. E ad aumentare l’incertezza ci pensa Lucia Azzolina. Che ogni giorno cambia versione…
- LA SCUOLA CHE FUNZIONA (è quella degli altri). Il confronto con gli altri paesi e la situazione tragica delle nostre strutture.
- SCUOLE PARITARIE A RISCHIO CHIUSURA – il grido di denuncia Padre Franco Ciccimarra presidente dell’Agidae, l’Associazione che riunisce gli istituti cattolici.
Dopo Benedetto Croce, Giovanni Gentile e Aldo Moro al ministero dell’Istruzione è arrivata Lucia Azzolina. Nonostante le sue fiammeggianti labbra rosse, che l’avvicinano esteticamente alle icone pop di Andy Warhol, fino agli inizi di marzo era semisconosciuta. Il coronavirus le ha però rapidamente concesso un’irresistibile ribalta, mediatica e politica. Chiunque abbia almeno un pargolo in età scolare, segue trepidando balbettii e strafalcioni che giungono da viale Trastevere. Passati quasi tre mesi dalla chiusura delle scuole, si brancola ancora nelle tenebre. Quando riprenderanno le lezioni? Come verrà organizzata la didattica? E che ne sarà dei malcapitati costretti agli esami?
Con il passare delle settimane, gli enigmi sono diventati più impenetrabili della Sacra Sindone. La generosità con cui la ministra pentastellata si concede a taccuini e telecamere eguaglia soltanto l’irresolutezza sfoderata con professori e studenti. In ossequio alla migliore tradizione giallorossa, pure lei s’è cinta di un abbondante centinaio di esperti e consulenti. Trasformando il ritorno in classe in un evento più incerto di una corsa al trotto. Rimane un’unica certezza, in definitiva: le scuole riapriranno. Prima o poi. Probabilmente, a settembre. Si paventano doppi turni, giorni alterni e didattica mista.
La seconda evidenza è che la maturità si farà. Magari, in modalità sprint. Si partirà il 17 giugno, pare. L’orale, di un’ora, varrà al massimo 50 punti. Uguale punteggio andrà ai trascorsi scolastici. E il presidente sarà l’unico membro esterno della commissione. O meglio, sarebbe: mancano infatti candidati in Lazio, Piemonte, Veneto e Marche. Come biasimarli? L’esame delle superiori, oltre che un’incognita, potrebbe diventare un rischio. Antonello Giannelli, che guida l’Associazione nazionale presidi, sottolinea: «Resta la grande aleatorietà della valutazione finale. Ed è possibile anche l’esplosione di contenziosi, visto che i genitori sono molto attenti al voto di diploma». I capi d’istituto aderenti alla Cisl attaccano, invece, l’esame di terza media: «L’esame proprio non c’è. Non c’è ammissione, non c’è commissione, non c’è alcuna prova. E questo mal si accorda con le previsioni costituzionali».
Intanto gli studenti dell’ultimo anno delle superiori, hashtag #ioscioperodacasa, si astengono dalle lezioni online per contestare la vaghezza della ministra. A meno di un mese dall’inizio della sessione non sanno più dove sbattere la testa: programma, materie, votazioni. L’attendismo viene intervallato soltanto da confusi passi avanti e maldestri passi indietro. In perfetto stile giallorosso. Perché alla fine, la strategia governativa per battere il coronavirus resta la stessa: rimanere a casa. Cari concittadini, vedrete che dopo «l’ora più buia», come ama definirla il premier Conte citando l’incolpevole Winston Churchill, prima o poi diventerà l’alba di un nuovo giorno.
Identica strategia ha mutuato la scuola. Alunni, docenti e famiglie: lo smarrimento è generale. Anche le paritarie sono in rivolta. Molti genitori, stritolati dalla morsa economica, hanno smesso di pagare le rette. Un terzo degli istituti, dove lavorano 160 mila persone, rischia adesso di non riaprire. E il Decreto rilancio, che prevede 1,4 miliardi per la scuola, lascia briciole alle paritarie. Seppur contino 900 mila studenti. Ma che importa? Nella visione ultrastatalista dei giallorossi, che considerano le private roba da ricchi, c’è posto solo per la cosa pubblica. Del resto, l’ex sindacalista Azzolina è da tempo in grande sintonia con il Pd. Le sue posizioni sembrano ormai lontane dall’ala confusamente meno sinistrorsa dei Cinque stelle, che fa riferimento all’ex leader del Movimento, Luigi Di Maio. Così centinaia di migliaia di alunni delle private, a settembre potrebbero essere costretti trasferirsi in una statale. Dalle classi pollaio, sempre stigmatizzate dalla ministra, alle classi alveare.
In Italia si procrastina dunque l’indifferibile. Invece gli istituti, in quasi tutti gli altri Paesi europei, hanno cominciato a riaprire: dalla Germania alla Francia. Certo, si procede a vista. Tra mille cautele. Ma lì, almeno, i governi hanno scelto. Mentre da noi ogni decisione è demandata a consulenti e superesperti, foglia di fico di ogni pusillanimità. Eppure persino l’ematologo Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri, scienziato italiano tra i più titolati al mondo, già un mese fa avvertiva: «I bambini non si infettano. I loro genitori, più o meno giovani, difficilmente sviluppano malattie importanti. Ma noi lasciamo le nuove generazioni a casa dai nonni. Un altro modo di mescolare. A mio avviso, un grave errore».
Per non parlare, appunto, dell’erculeo sforzo che le famiglie continuano a fare per aiutare i figli, tra compiti e lezioni online. Gli italiani vivono sull’orlo di giornaliere crisi di nervi: rocambolesche sessioni telematiche, banda larga a intermittenza, tribolate comunicazioni con i docenti. Un’affannosa e controversa trafila diventata odioso privilegio. Solo una famiglia su tre ha un computer da usare per la didattica a distanza: DaD, per gli addetti. Ma il presidente del Consiglio assicura: «Mediamente, sta funzionando bene». Come no? Molti insegnanti si sono dati alla macchia, accampando problemi di connessione. E le lezioni si riducono, in tanti casi, a due o tre ore alla settimana. Senza considerare che una famiglia su quattro, calcola l’Istat, non ha internet. Così, quel «mediamente» buttato lì da Giuseppi sembra l’aritmetica spiegata dal poeta romano Trilussa: c’è chi non mangia neanche un pollo e «c’è un antro che ne magna due». C’è la casa piena di ultimi ritrovati tecnologici. C’è quell’altra senza nemmeno una scrivania. E c’è quell’altra ancora in cui bisogna dividere un pc tra il lavoro dei genitori e la scuola dei figli. Ma Azzolina, per il teorico ritorno a settembre, ipotizza comunque lezioni virtuali alternate a presenze in classe. Un scenario che rischia di sconquassare ogni focolare.
Tranquilli, però. A mettere a punto il piano per la ripartenza ci pensa la task force delle task force: l’ultima commissione, nata all’uopo, composta da 15 componenti. Si aggiungono ai 100 esperti già chiamati dalla ministra il 24 febbraio 2020. «Daremo risposte puntuali» giurava lei. «Trasformeremo la crisi in opportunità». Insomma, saranno loro a portarci nella scuola del futuro. Cammino che, d’altronde, Azzolina ha ben avviato grazie al primo esperto chiamato in viale Trastevere dopo la sua nomina, avvenuta lo scorso 10 gennaio. È Giuseppe Paschetto, pluripremiato ex insegnante di scuola media nel biellese, zona in cui era in servizio anche la ministra. Un’indifferibile consulenza, a titolo gratuito ma con rimborso spese, «per l’innovazione didattica e la formazione». Candidato senza successo alle scorse elezioni regionali in Piemonte, Paschetto è un Cinque stelle a 24 carati. Ma soprattutto è un innovatore: via libri di testo, compiti a casa e voti insufficienti. Ed è sempre lui l’inventore del «feliciometro»: provette piene di liquidi colorati che misurano il benessere degli scolari. Esperimento che però, vista l’attuale selva di critiche, per il momento Azzolina farebbe bene ad accantonare.
Poco male. Per lei la nomina a ministro è il felice corollario di un curriculum un po’ asfittico, certo. Ma che, se paragonato a quello dei colleghi pentastellati, è degno di un’accademica della Crusca. La trentasettenne cui Giuseppi ha affidato le sorti della scuola italiana non ha una laurea. Bensì, due. Circostanza che la fa assomigliare, nel microcosmo grillino, a una rediviva Franca Falcucci. La prima laurea, in filosofia, la consegue a Catania, nella natìa Sicilia. La seconda, in giurisprudenza, la ottiene a Pavia. Docente in Liguria e in seguito a Biella, si dedica al sindacalismo e poi alla politica. Candidata con il Movimento ed eletta a marzo 2018 alla Camera, diventa ovviamente inscalfibile colonna della commissione Istruzione di Montecitorio. A settembre 2019 viene quindi nominata sottosegretario dell’Istruzione. E dopo le polemiche dimissioni di Lorenzo Fioramonti, ex pentastellato ora nel gruppo misto, Azzolina è finalmente ministro.
Anche a lei, sarà sembrato il più inaspettato degli epiloghi. «È giusto che un deputato della Repubblica italiana pensi pure all’accrescimento della propria carriera, soprattutto in un partito dove c’è il vincolo dei due mandati» dice infatti a giugno 2018, dopo la selva di polemiche che rischiano di compromettere la sua promettente carriera politica.
La futura ministra, in quel periodo, decide infatti di partecipare al concorso per diventare preside. Inopportuno, segnalano decine di altri aspiranti. Al contrario Giuseppi, una volta premier, aveva rinunciato alla selezione per l’agognato posto di ordinario di diritto privato alla Sapienza di Roma.
Azzolina invece, nonostante le polemiche, va avanti. Scatenando addirittura le ire di alcuni deputati dei Cinque stelle. Un membro della commissione Istruzione che tenta l’esame da dirigente scolastico: sconveniente? Macché. Nessun imbarazzo. Anzi. Qualche giorno prima del sua prova, il 6 giugno 2018, lei spiega: «Sarebbe bello se l’orale fosse anonimo, perché la verità è che dovrò studiare il doppio rispetto agli altri».
All’insinuazione, risponde Massimo Arcangeli. Ovvero, proprio il presidente della commissione d’esame. Alla vigilia della nomina a ministro della grillina, il linguista interviene per ripercorre i momenti salienti della selezione: «Non ci siamo prodotti né in genuflessioni né in accanimenti. E alla fine Lucia Azzolina, malgrado io stesso le abbia fatto una domanda sull’interculturalismo caduta nel vuoto, se l’è cavata». Idonea, dunque. Sebbene l’orale non «sia andato poi così bene». Aggiunge Arcangeli: «Non ha risposto a nessuna delle domande di informatica, al punto da strameritarsi uno zero». Ma sarebbe andato maluccio, conclude, anche l’inglese: «Il voto ottenuto fu allora il più basso fra quelli maturati dal quintetto della mattinata: 5 su 12».
Insomma, i vostri figli stentano nella didattica a distanza? Continuano a balbettare frasi degne del «noio volevam savuar» di Totò? Consolatevi. Pure la ministra dell’Istruzione non sembra eccellere nelle due strategiche discipline: informatica e lingua straniera. Anche se, nella sua appassionante biografia, sono ancor più sbalorditive le accuse di aver copiato la tesi finale per l’abilitazione professionale. L’elaborato, di 41 pagine, s’intitola: «Un caso mentale lieve associato a disturbi depressivi». E viene vergato per la Scuola di specializzazione all’insegnamento secondario della Toscana (Ssis), frequentata a Pisa tra il 2008 e il 2009. A scoprire il presunto plagio è sempre Arcangeli. Su Repubblica segnala che il ministro avrebbe generosamente attinto da altri testi. Si va, dettaglia, dal Dizionario di psicologia di Umberto Galimberti al Trattato italiano di psicologia di autori vari. Passando per il manuale dell’American psychiatric association. Tutti illustri luminari e monumentali tomi che l’allora esaminanda si sarebbe ben guardata dal citare.
Totale parole rubate: 1.542, calcola il linguista. Ossia, il 17,8 per cento dello scritto. Una percentuale più alta di quella imputata all’ex ministra della Pubblica amministrazione, la dem Marianna Madia, accusata di aver copiato la sua tesi di dottorato dal Fatto Quotidiano. Ossia, lo stesso giornale che, diventato nel frattempo ultragovernativo, si adopererà per assolvere Azzolina: la sua non sarebbe una vera e propria tesi, ma «un resoconto dell’esperienza del tirocinio». Dunque, poteva attingere a mani basse. E anche un supercampione pentastellato, l’ex ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli, si produce all’epoca in un mordace attacco alla piddina: «Dei tedeschi ammiro la serietà istituzionale. Un ministro si è dimesso per una tesi copiata. Se non chiarisce, Madia dovrebbe fare lo stesso».
Come dargli torto? Nel 2011, in Germania, il titolare della Difesa, il barone Karl-Theodor zu Guttenberg, è costretto a lasciare la poltrona per aver copiato la tesi di dottorato. La stessa cosa capita, qualche tempo dopo, pure al ministro dell’Istruzione, Annette Schavan. Urge simil pariglia, suggerisce il pugnace Toninelli. E Azzolina? I suoi sarebbero peccatucci veniali, invece. Del resto, perfino Conte ha ammesso di «aver infiocchettato il curriculum» in passato. La ministra dalle labbra scarlatte, dunque, non ha nulla da temere. Non le resta che proseguire sui suoi incerti passi. Ineccepibile personificazione di un’altra frase del Winston a cui Giuseppi s’ispira in questi tempi cupi: «La mia formazione è stata interrotta solo dalla scuola».
LA SCUOLA CHE FUNZIONA (QUELLA DEGLI ALTRI)

In molti Paesi i ragazzi sono tornati in classe con le dovute precauzioni. In Italia invece si discute ancora su quando e come. Con alcune certezze: che gli edifici scolastici sono vecchi, le aule inadeguate, gli insegnanti insufficienti e mal pagati, la tecnologia obsoleta. L’istruzione tuttavia non è una priorità del governo.
di Giorgio Sturlese Tosi
La scuola è morta, viva la scuola. L’emergenza coronavirus ha definitivamente certificato di che pasta sia fatto il nostro sistema scolastico, un carrozzone in precario equilibrio dove la pluridecennale penuria di risorse, l’elefantiasi burocratica e l’incontrollata autonomia gestionale soffocano la passione di molti insegnanti. Garantendo vita facile, invece, a mediocri e imboscati.
Tra 120 giorni vedremo rinascere una scuola forzatamente diversa. Ma a tre mesi dalla chiusura delle aule, studenti, docenti e famiglie navigano ancora a vista. Il Dpcm dell’8 marzo del premier Conte, che ha sospeso «le attività didattiche in tutte le scuole del Paese» ha avuto sul corpo insegnante lo stesso effetto del proclama dell’8 settembre del maresciallo Badoglio sull’esercito italiano. Allo sbando, senza ordini né aiuti, in tanti hanno gettato l’uniforme e si sono dati alla macchia.
Sette milioni e 599.259 studenti, allontanati anche dai nonni, sono stati affidati alle madri, costrette a ristudiare verbi e algoritmi per incastrare, tra pulizie domestiche e sessioni di smart working, le lezioni casalinghe. Sono passati un paio di mesi ma la situazione non è migliorata. Prima a chiudere e ultima a riaprire, la pubblica istruzione non è esattamente in cima alle preoccupazioni del governo. Conte, nei 55 minuti di conferenza stampa del 13 maggio per presentare il Decreto rilancio, assente il ministro Lucia Azzolina, ha speso 45 secondi per annunciare che «la scuola è al centro dell’azione di governo» e uno stanziamento in due anni di un miliardo e 450 milioni.
Al ministero di viale Trastevere, intanto, assicurano di non aver mai smesso di lavorare. Per l’emergenza e per la ripartenza (probabilmente) a settembre. Per progettare questa nuova scuola, rimodellata sul coronavirus, il ministro Azzolina ha costituito l’ennesima task force di esperti, guidata dal professor Patrizio Bianchi. «Il coronavirus ha portato in evidenza i problemi della scuola italiana e ci ha messo spalle al muro» riflette il consulente del ministro. «Per questo non possiamo riportare il sistema scolastico alla precedente “normalità”, quando cioè uno studente su quattro, al Sud, abbandonava la scuola. Stiamo lavorando a una fase costituente, dove l’espressione “classe” dovrà essere sostituito da “gruppo di apprendimento”. Fino a febbraio, quando suonava la campanella delle 8 e 30, si muovevano 22 milioni di individui tra studenti, insegnanti, personale amministrativo e genitori. Il virus ci ha insegnato che esistono altri strumenti di relazione e la didattica a distanza ci ha dimostrato che anche gli orari di lavoro possono essere cambiati».
Con attenzione alle diseguaglianze, i 18 esperti lavorano su termini quali extramoenia, outdoor, curriculum flessibile. Insomma, una rivoluzione copernicana. «Ce la faremo ad adeguare la scuola in tre mesi gettando le basi per una riforma strutturale?» si chiede Bianchi. «Si può fare. Ma certo servono interventi economici massicci che l’Europa deve mettere a disposizione di tutti gli Stati, non solo per l’emergenza, ma anche nel bilancio pluriennale». Per ripartire la scuola si reggerà dunque su tre pilastri: nuovi spazi, nuovi orari e alternanza tra lezioni in classe e didattica a distanza. Vediamo su quali premesse questo sarà, o dovrebbe essere, possibile. Nuovi spazi. E qui le proposte sono due: modifiche strutturali per permettere il distanziamento tra studenti e l’uso di luoghi non convenzionali. Nel primo caso, però, la missione si annuncia improba se non disperata. Uno studio dettagliato della Fondazione Agnelli rivela che gli edifici scolastici italiani sono vecchi: il 60,2 per cento risale a prima del 1976; e almeno l’8,6 per cento del totale di quelli censiti (36 mila nel 2016) «ha uno o più problemi strutturali seri». Il numero medio di studenti per classe è 20 e l’aula, sempre in media, misura appena 45 metri quadrati. Secondo il direttore della Fondazione Agnelli Andrea Gavosto «per ristrutturare e rinnovare i 40 mila edifici scolastici attivi servirebbero 200 miliardi, equivalente all’11 per cento del Pil e a tre anni dell’attuale spesa complessiva per l’istruzione». Ma non è solo questione di soldi: «Si tratta di un impegno pluriennale. È impossibile fare, nella prossima estate, lavori importanti sugli edifici, servono risorse enormi e tempi lunghi». Quindi «le soluzioni non potranno che essere miste: ridurre il numero di allievi in classe, prevedere turnazioni, estendere la frequenza e il lavoro dei docenti, modificare il monte ore della didattica e usare altri spazi».
A Milano, città con il record europeo di decessi per coronavirus (oltre 3 mila) e circa 10 mila contagiati, la questione è terribilmente seria. Le scuole non possono trasformarsi in nuovi focolai di infezione. Paolo Limonta, assessore all’Edilizia scolastica del comune di Milano e maestro elementare, ci sta lavorando da settimane. «Stiamo mappando tutti gli istituti per capire dove eseguire modifiche strutturali» dice Limonta «e laddove non sarà possibile ricavare altri spazi adotteremo il concetto di scuola diffusa coinvolgendo palestre, biblioteche, oratori e fattorie didattiche. Nei parchi pubblici potremo montare prefabbricati di legno e container».
Presidi e Comune, però, da soli non ce la possono fare. «Al ministro Azzolina chiedo più docenti entro il 1° settembre e risorse economiche per l’edilizia» mette le mani avanti Limonta. «Se a settembre la situazione non sarà adeguata alle nuove esigenze sanitarie chiederò ai miei colleghi di non aprire le classi».
Più imperturbabili i dirigenti scolastici del Lazio. Interpellato da Panorama, l’Ufficio regionale scolastico risponde: «Per quel che avverrà a settembre occorre attendere le indicazioni dell’apposito gruppo di lavoro ministeriale». Nuovi orari. Posto che sarà necessario diluire l’afflusso di studenti, e distanziarli tra loro, non meno arduo sarà spalmare la didattica su tempi diversi. Principali ostacoli: l’organico degli insegnanti e i loro sindacati. Oggi ci sono 669.883 docenti e 101.170 insegnanti di sostegno. E 150 mila precari attendono di essere stabilizzati. Il ministero intende mettere a bando un totale di 78 mila posti, ma anche ammesso che riesca ad assumerli per settembre, questi andranno a colmare vuoti di organico preesistenti.
Da valutare anche la disponibilità degli insegnanti italiani che, secondo i dati Ocse, sono i peggio pagati d’Europa: un professore di liceo al massimo della carriera porta a casa uno stipendio di 38.901 euro, mentre il collega tedesco arriva a 76.778, il doppio. Anche la spesa per l’istruzione, in Italia, è la più bassa tra i Paesi Ocse, con appena il 3,6 per cento del Pil. «Nuove funzioni e nuove impostazioni organizzative devono essere regolamentate all’interno del contratto nazionale» tuona Giuseppe Massafra, segretario nazionale Cgil, che esige un «protocollo di sicurezza» e, a proposito dello smart working, afferma: «Non può essere regolato da un Dpcm, deve prevedere il diritto alla disconnessione: quanto dovrà durare una lezione? Pure la didattica a distanza deve essere regolata dal contratto».
Altro tema spinoso è, appunto, questa nuova didattica. Se uno studio di Cisl Scuola ne celebra il successo, dall’osservatorio della Cgil Massafra rileva che «ci sono state profonde disfunzioni e un utilizzo di strumenti che non hanno raggiunto tutti gli studenti». Una fonte qualificata del ministero dell’Istruzione ci rivela che i report acquisiti a livello centrale sono stati corretti perché eccessivamente ottimistici. Ai questionari infatti hanno risposto i singoli presidi, vantando i propri successi, nonostante le doglianze dei genitori che ogni giorno scrivono al ministro. Ci sono stati, è vero, esempi virtuosi di abnegazione e intraprendenza da parte di migliaia di insegnanti, ma l’autonomia scolastica ha impedito di intervenire su chi alla fin fine si è arreso, limitandosi a caricare i ragazzi di compiti sul registro elettronico. Nel quartiere periferico Gallaratese di Milano, l’Istituto Riccardo Massa ha coinvolto tutti i 136 insegnanti che, grazie anche ai fondi del ministero per l’acquisto di computer, tablet e connessioni internet, riescono a impartire lezioni per otto ore al giorno. Nel comune di Segrate, a pochi chilometri dal capoluogo lombardo, un dirigente scolastico invece non ha potuto, o voluto, fare altrettanto: così i bambini di una quinta elementare seguono tre ore di lezione alla settimana grazie alle maestre più intraprendenti, mentre altri docenti, in tre mesi, si sono palesati una sola volta per caricare di compiti gli alunni sul registro elettronico o sono scomparsi del tutto.
Per fare un altro esempio, a Fasano, in Puglia, le famiglie sono scese in piazza contro il dirigente scolastico che ha deciso di interrompere le lezioni a distanza e il caso è finito in Parlamento. Date queste premesse è decisamente concreto il rischio che la scuola tracci un solco incolmabile tra studenti ricchi e poveri (alcune scuole private di Roma e Milano garantiscono otto ore al giorno di lezioni online) come tra italiani e stranieri (789.066 quelli sui banchi). Gli studenti affetti da Dsa, disturbi specifici dell’apprendimento (276.109 quelli certificati) rischiano di fare passi indietro, e gli alunni che abitano nelle metropoli saranno avvantaggiati, per possibilità di trasporti, connessione internet e offerte educative, rispetto ai compagni delle aree rurali, montane o costiere.
Mentre in Italia si discute (ancora) di tutto questo, in altri Paesi le lezioni sono riprese. Elementari e medie sono già aperte in Svezia, Danimarca (dove le lezioni si tengono anche sotto i tendoni nei parchi pubblici), Norvegia, Francia su base volontaria ma solo per le elementari e, gradualmente anche in Germania. A Wuhan, in Cina, là dove tutto è partito, tre mesi dopo il loro inflessibile lockdown, 76 mila studenti sono tornati sui banchi di scuola, tra mascherine, gel disinfettanti e divisori in plexiglass.
QUESTO GOVERNO VUOLE CANCELLARE LE SCUOLE PARITARIE

«Veniamo ignorati, i 65 milioni destinati dal Decreto rilancio alle nostre strutture significano un euro al giorno per bambino» denuncia Padre Franco Ciccimarra presidente dell’Agidae, l’Associazione che riunisce gli istituti cattolici. «Così si elimina la libertà di educazione».
di Edoardo Dallari
Nei confronti delle scuole paritarie è in atto una discriminazione assurda e inaccettabile. Se esiste un progetto per affossarle è più onesto manifestarlo pubblicamente. È come se l’emergenza coronavirus non riguardasse i nostri ragazzi». Padre Franco Ciccimarra, da 25 anni presidente dell’associazione Agidae, l’Associazione gestori istituti dipendenti dall’autorità ecclesiastica, vuole far sentire la voce delle scuole paritarie, a suo dire ignorate dal governo, e sedersi a un tavolo per trovare soluzioni condivise per far uscire la scuola dalla crisi del coronavirus. «Il sistema scolastico nazionale è integrato, è composto da scuole statali e non statali, non possiamo dimenticarlo».
Padre Franco, nel Decreto rilancio è stato stanziato oltre un miliardo e mezzo dedicato alla scuola, è soddisfatto?
Rispetto agli altri Paesi europei, l’Italia continua a investire troppo poco in relazione al Pil. Clamoroso è che per le scuole paritarie non sia previsto praticamente nulla, se non 65 milioni per la fascia d’età da zero a sei anni con cui si erogano sussidi alle scuole d’infanzia, nidi, micro nidi e sezioni primavera. Ma sono briciole, poco più di un euro al giorno a bambino.
Ritiene che vi sia un pregiudizio ideologico da parte del governo nei vostri confronti?
Per questo esecutivo il sistema delle scuole paritarie di fatto non esiste. Stanno rinnegando la legge 62 del 2000 sulla parità scolastica. Se si ascoltano le interviste del ministro Lucia Azzolina ci si accorge che non ha alcun interesse a sostenere il nostro mondo, sembra quasi che pensi che sia meglio che scompariamo. Così facendo, si elimina l’interazione tra lo Stato e la libertà di educazione. Non è un caso che l’Azzolina faccia parte del governo Conte, che agisce all’insegna dello statalismo.
E quali misure chiedete da mettere in campo per le scuole paritarie?
Siamo stati completamente ignorati. Chiediamo innanzitutto quello che ci spetta. Le paritarie stanno ancora aspettando i contributi ministeriali del 2018, del 2019 e del 2020. La cassa integrazione in deroga e il fondo di integrazione salariale non si sono visti. Ci rendiamo conto che le famiglie vivono ormai in grande difficoltà economica e non riescono a pagare la retta? Stiamo sollecitando un intervento sulla deducibilità fiscale di una quota adeguata delle rette che vengono pagate. Non è possibile che sia concesso dedurre costi di ogni tipo e non quelli per l’educazione dei figli. È un’ingiustizia fiscale inaccettabile. E poi c’è una questione che mi sta ancora più a cuore…
Quale?
Non si è fatto nulla per tutelare i diritti dei disabili. Non si tratta di soldi, bensì di rispettare la dignità dei bambini. Sui 14 mila ragazzi con disabilità che si trovano nelle nostre strutture è calato un silenzio assordante da parte del governo. Bisogna garantire loro le stesse condizioni, ovunque siano iscritti: è un principio di libertà e uguaglianza. È un dovere dello Stato e della finanza pubblica, non può essere tutto a carico delle famiglie. Delle due l’una: o si garantisce il sostegno o si dice chiaramente che i disabili devono andare nelle scuole statali. Chi non capisce questo non può stare al Miur.
Il governo ha anche stabilito che ci saranno 16 mila posti in più per le assunzioni attraverso i concorsi. È possibile pensare a una forma di reclutamento differente?
Esiste una norma costituzionale che impone il concorso per l’accesso ai ruoli dello Stato. È un principio di diritto insuperabile, è quasi inutile parlarne. Il problema è che dalla Buona scuola di Matteo Renzi in avanti, le scuole paritarie sono un serbatoio di docenti che continua a svuotarsi. I professori sviluppano competenze da noi e poi, appena si apre un concorso, passano alla scuola statale. Attenzione, non dico che sia sbagliato, ci mancherebbe, ma se ci fosse rivolta un po’ di attenzione in più, i docenti non sentirebbero così forte l’esigenza di andarsene.
Non potete far sentire la vostra voce al ministero?
Al Miur esiste da anni un tavolo tecnico per le scuole paritarie, ma da quando è stato nominato questo ministro, non è mai stato convocato né radunato. Una volta le problematiche venivano condivise, ora è calato il silenzio, e si ha la sensazione che si voglia fare a meno di noi.
Come ritiene che il ministro Azzolina abbia gestito la crisi del coronavirus?
Con molte titubanze e tanti punti interrogativi irrisolti. Non ha passato un’idea di sicurezza. Basti pensare alle contraddizioni sull’esame di Stato che prima doveva essere online e poi è diventato frontale in sede, oltre che ai dubbi sulla ripartenza dell’anno scolastico. Per ora siamo tutti convinti che si ricominci a settembre, ma senza norme adeguate per il distanziamento sociale non si può. Gli spazi in cui fare lezione sono quelli che sono, è difficile moltiplicarli, il loro utilizzo può contemplare la turnazione della docenza, ci dovremo abituare.
Quindi è d’accordo sulla proposta della docenza mista, metà studenti in classe e metà collegati da casa, a partire da settembre? Non si potrebbe provare a recuperare altri spazi?
Bisognerebbe fare un inventario degli spazi interni alle strutture scolastiche per utilizzare al meglio quelli che si hanno già, come le palestre, i teatri, in alcuni casi le cappelle, e se questi non fossero sufficienti si possono provare a recuperare luoghi esterni. Al momento, tuttavia, non c’è alternativa, l’unica soluzione è quella di coniugare spazi a disposizione, turni di docenza e tecnologia. Sia chiaro: nessuno sogna di sostituire la presenza fisica con la didattica online, perché senza incontro interpersonale i ragazzi non crescono né umanamente né culturalmente. E non tutti i docenti hanno le capacità di inventarsi una didattica online dalla sera alla mattina, servono formazione e tempo. Neanche a dirlo, per le scuole statali sono stati stanziati dei finanziamenti, per quelle paritarie nulla.
Non è semplice riorganizzare in così poco tempo il sistema scolastico.
Il coronavirus ci ha preso tutti alla sprovvista, tanto le famiglie quanto le scuole. È il momento di essere flessibili, e lo dico principalmente ai sindacati e ai docenti: perché non si può recuperare il sabato come giorno di lezione e lavoro? O addirittura la domenica?
Il Covid-19 può essere un’occasione per innovare la didattica?
Di per sé, nel mondo odierno, non ci sarebbe neanche bisogno di andare a scuola per apprendere delle nozioni: per quello c’è Google. La sfida è far crescere i giovani spiritualmente. L’atto formativo è rivolto alla crescita della persona: ogni ragazzo esprime un mondo tutto suo, fatto di passioni, aspirazioni e sogni, e sono questi che con fatica vanno coltivati per raggiungere maturità emotiva e autonomia intellettuale. Sogno una scuola di eccellenza culturale, educativa e organizzativa.
Per raggiungere questo obiettivo è necessario rivalutare il ruolo dei professori?
Quello tra professori e studenti è un rapporto non solo formale, ma anche molto personale. Entra in gioco un’ascendenza psicologica fondamentale: i ragazzi sentono il bisogno di interloquire con dei maestri anche fuori dagli orari scolastici, nella vita di tutti i giorni. Nulla è più bello di sapere che alcuni protraggono nel tempo i rapporti con i loro insegnanti quando hanno terminato il percorso di studi. Vuol dire che è rimasta impressa una traccia importante nella loro anima.