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Colloquio con Marco De Vincenzo direttore creativo di Etro

Colloquio con Marco De Vincenzo direttore creativo di Etro

A un anno dalla direzione creativa di Etro, il designer siciliano racconta il suo metodo di ricerca, le criticità del lavoro, la bellezza di vedere realizzata una collezione. E soprattutto la fortuna di avere una passione, quella per la moda.


È importante tornare a parlare delle ispirazioni che alimentano una collezione perché questo significa raccontare un po’ sé stessi». Comincia così la nostra conversazione con Marco De Vincenzo, da un anno alla direzione creativa di Etro. E «raccontare un po’ sé stessi», ovvero far emergere la propria sensibilità di designer, può diventare un’urgenza estetica, oltre che psicologica, soprattutto quando si prendono le redini di un marchio storico dal potente immaginario.

Un anno può bastare per fare un bilancio?

Diciamo che un anno è quasi niente: quando arrivi devi comprendere il brand, dove vuole andare, cosa vuole diventare. Tra l’altro io sono capitato in un momento di grande cambiamento, ho conosciuto il marchio familiare quando in parte era stato ceduto (al 60 per cento al fondo di private equity L Catterton, partecipato dalla Financière Agache del patron del lusso francese Bernard Arnault, ndr). Un momento di passaggio cruciale che avevo già vissuto da giovane, quando sono stato chiamato da Fendi nel momento in cui la cui famiglia stava trattando con il gruppo Lvmh. Quindi da una parte è stato bello entrare nelle dinamiche famigliari e, nel caso di Etro, addirittura del fondatore, ma poi devi concentrarti per capire cosa fare, quali nuove strategie seguire.

E quali sarebbero?

Cambiano le ambizioni che sono per lo più legate alla crescita e questo oggi è imprescindibile per qualsiasi progetto di moda. Una crescita spesso vertiginosa che il mercato richiede e il business intende raggiungere. Anche il signor Etro, quando nel 1968 ha fondato il marchio, aveva ambizioni economiche, ma i tempi erano diversi, nasceva il made in Italy, tutto si stava costruendo, c’era spazio per chiunque, il clima era effervescente, ma meno competitivo.

Ritiene, quindi, che bisogna tutelare l’aspetto creativo dall’ossessione mercantile?

Il mercato è vorace e veloce. Lavoriamo di corsa e dobbiamo avere l’intuizione giusta che non deve coincidere solo con la bellezza di una collezione ma anche con la sua vendibilità. Noi designer stiamo diventando in parte imprenditori, nostro malgrado.

Lei è il primo designer esterno del brand, in 50 anni di storia.

È vero, Etro non è mai stato toccato da altri designer, al di là dei figli del fondatore. Non solo, io ho anche deciso di non portare nessuno con me, perché non amo la colonizzazione degli uffici stile, pertanto ho lavorato fin dall’inizio con il team interno che mi ha dato una grande mano, già dalla prima collezione di settembre 2022, realizzata in tre settimane. E, al di là dei risultati, per me è stata un’esperienza umana bellissima. Non sono più un ragazzino, lavoro da diversi anni, ho fondato un mio brand, ho una mia estetica, ma in questi oltre 20 anni di collaborazione con Fendi (è ancora il designer degli accessori, ndr) ho imparato che bisogna scomparire, ma allo stesso tempo esserci. La mia missione quotidiana è rispettare i codici del brand senza perdere la mia identità.

E per fare questo su cosa lavora?

Lavorare sui codici di una maison è un privilegio, ma allo stesso tempo cerco di assecondare il mio spirito archeologico, andando oltre l’immaginario più diffuso che lega il brand all’hippie chic, indietro fino ai tessuti maschili, alle stampe della cravatteria da cui è partito il signor Etro. E anche l’interpretazione dello spirito bohémien del marchio l’ho personalizzata, eliminando gli elementi che non mi appartengono.

Lei è uno stilista vecchio stampo, conosce i tessuti, sa disegnare. Invece oggi le scelte puntano su direttori creativi poliedrici non necessariamente usciti dalle scuole di moda. Che ne pensa?

Sì, io ho una formazione diciamo classica e ne vado fiero, ma ritengo che la moda oggi sia un linguaggio che non ha bisogno delle stesse competenze del passato: non serve più essere un sarto e avere quel tipo di conoscenze per fare una collezione. Detto questo, però, guai a credere che tutti possano fare tutto. Rimango un ferreo sostenitore dei mestieri e credo che pochi possano essere interessanti senza mestiere, qualsiasi cosa facciano.

Pensa che ci siano giornalisti di moda poco interessanti?

Dare giudizi senza cognizione di causa, oltre a essere spietato, è un modo per logorare un sistema. Chi trasforma i propri giudizi personali in messaggi universali, forte dei suoi follower e della sua carineria, può essere pericoloso. Alla fine, deve parlare solo chi ha studiato. Studiare è la regola che non dovrebbe essere messa in discussione. Se critichi la mia collezione senza venire a vederla, guardandola al computer, privandoti di una chiacchierata con il designer, potresti mettere a rischio il lavoro di tante persone, spesso solo per vanità personale e non per una critica costruttiva. Questa è la cultura dell’ego che non sopporto.

Cosa le pesa del suo lavoro?

Fare i video per TikTok.

Si ritiene fortunato?

Moltissimo. Lo sono tutti quelli nati in una zona del mondo dalla quale non devono scappare. E in questo non c’è alcun merito, ma solo fortuna. Inoltre ho ricevuto il dono della passione che coltivo dall’infanzia, un fuoco che riscalda la mente e mi dà energia.

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