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(Paramount+)
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LINA GALORE È LA VINCITRICE DELLA TERZA EDIZIONE DI DRAG RACE ITALIA

Lina Galore è un nome d’arte. Guarda al cinema, ad Eduardo De Filippo e all’amore. «Lina», come la Sastri di Natale in casa Cupiello. «Galore», come l’ex fidanzato ha scelto di battezzare la propria versione drag. «Mi sono preso il suo cognome, come accade in ogni famiglia drag», ha spiegato Giovanni Montuori, la cui vita d’arte è cominciata per caso, nelle ore che precedono l’arrivo ad una festa. Era Halloween, il tema Sanremo. Montuori, insieme al compagno di allora, ha deciso di travestirsi. «Così, un po’ per gioco, lui da Jo Squillo e io da Sabrina Salerno. Una svolta». Nel giro di un anno, il gioco ha lasciato spazio ad una realtà fatta di studio e applicazione. Montuori, consulente di comunicazione, ha cominciato a costruire la sua Lina Galore, la drag che – a sei anni di distanza – sarebbe stata incoronata vincitrice di Drag Race Italia, nel gran finale della sua terza stagione.

La puntata, disponibile per l’Italia su Paramount+, per il resto del mondo su Wow Presents Plus, è stata rilasciata venerdì 29 dicembre. Allora, Lina Galore ha potuto rompere il silenzio, raccontare la propria impresa: gli esordi, un universo fatto di pin-up e cattivissime dai cartoni animati, i soldi spesi per le parrucche e la convinzione che uno show televisivo possa avere (anche) un suo valore civile.

Cominciamo dal principio. Quando è nata Lina Galore?

«Lina Galore è nata grazie alla mia drag mother, a colui che è stato il mio compagno per otto anni. È nata quando questa persona mi ha invitato a scoprire l’arte drag giurandomi che mi avrebbe consentito di conoscere Giovanni in modi che non mi sarei aspettato. Fra il 2016 e il 2017, intorno a quelle che io amo definire le feste comandate dei gay, Halloween, Capodanno, Carnevale, ci siamo travestiti per andare in discoteca. Credevo lo avrei fatto solo in occasione di questo tipo di feste. Invece, nel 2019, tre mesi prima che il mondo chiudesse, mi sono ripromesso di fare la drag in modo professionale. Scelta, questa, figlia del desiderio di canalizzare l’ispirazione ricevuta dal mondo dello spettacolo, dai cartoni animati, dalla lettura e dalla letteratura».

Al tempo, lei era già un giovane professionista. Non ha mai avuto paura che questa sua «doppia vita» potesse causarle dei problemi?

«In realtà no. la scelta di iniziare a fare drag è nata in conseguenza all’acquisizione di una consapevolezza. Non avrei fatto l’avvocato, come da percorso di studi. Avevo scelto la facoltà di Legge per presupposti sbagliati, nel tentativo forse di indorare la pillola a mamma e papà perché me ne andavo a Milano. Allora, ho capito che la mia strada sarebbe stata la comunicazione, settore che vive sull’idea di libertà. Lavorare in questo campo non mi ha mai fatto dubitare della mia scelta di essere una drag queen professionista».

In un certo senso, quindi, per lei è stato facile.

«Sicuramente ho avuto più facilità di chi lavora in campi meno elastici, campi istituzionali. Se posso permettermi, però, di dare un consiglio a chi voglia cimentarsi in questa forma d’arte, è di conoscere se stessi e di perseguire i propri desideri e la propria libertà».

Le Iene hanno dato spazio di recente a Tekemaya, la drag cui dei calciatori di Martano hanno strappato la parrucca. Mai vissuto episodi simili?

«Personalmente no. Ho nei confronti della violenza un atteggiamento molto elastico. Penso, cioè, che il dialogo sia lo strumento più forte che si possa usare per disarmare il bullo. Non mi è mai capitato di avere a che fare con la violenza fisica, ma mi è capitato di dover affrontare domande scomode o di dover far fronte a battutine. Ho sempre cercato di rigirare lo scherno perché inducesse il bullo a riflettere».

Quanti e quali falsi miti sono associati all’universo drag?

«Vivendo in una società patriarcale ed eteronormata, la prima cosa che si pensa d’istinto, negli ambienti meno aperti da un punto di vista sociale, è che chiunque sia vestito da donna abbia una data sfera sessuale, una sfera sessuale che spesso è destinata a scadere nella perversione. Credo ci sia bisogno di stabilire una comunicazione libera e pulita, perché attraverso questa si crei un’apertura e, di conseguenza, la possibilità di vivere ciascuno secondo i propri desideri».

Che ruolo ha la televisione in questo processo di sensibilizzazione dell’opinione pubblica?
«Un ruolo fondamentale. Io penso che il concetto di rappresentazione sia lo strumento più potente in mano al mondo della comunicazione e penso che la rappresentazione debba essere l’obiettivo più vero dei media. Nel momento in cui un bambino guarda un performer queer fare qualcosa e chiede ai genitori chi sia e cosa sia quel performer, si ha un momento di crescita, personale e culturale, del bambino. La televisione nel rappresentare tutte le categorie del mondo Lgbtqi+ ha, dunque, un potere immenso».

Ma non si rischia di arrivare ad un obbligo di rappresentazione che, in dati casi (come la Bud Light in America) può rivelarsi controproducente?
«Io ritengo che non esista l’over rappresentazione. Una trans (come quella scelta dalla birra Bud Light per lo spot della discordia, ndr) è una persona come tutte le altre, una persona la cui presenza all’interno di una pubblicità non dovrebbe destare neanche l’alzarsi di un sopracciglio. Il fatto che ci sia stato tanto caos è sintomatico di un mondo che ha ancora bisogno di crescere. Certo, c’è un rischio di backlash legato ad un target che a sua volta è schiavo di questi preconcetti, ma i media devono dare rappresentanza ad ogni, virgolette, categoria».

È giusto, quindi, rileggere certe forme d’arte – come i cartoni animati Disney – ed epurarle di «peccati» commessi in tempi in cui non potevano essere ritenuti tali?

«Ogni forma d’arte è figlia del suo tempo. Ciò detto, però, trovo molto nobile cercare di modernizzare rispetto alla società attuale quello che è stato. Non mi sento di condannare la volontà di chi ha cercato di rettificare un dato messaggio, se il messaggio è stato ritenuto sbagliato nei confronti di una qualche comunità. Di più. Non credo si dovrebbe traslare questa consapevolezza nel famigerato politicamente corretto. Non si tratta di retorica, ma di dare a tutti la possibilità di vivere all’interno di una società che sia davvero libera e inclusiva».

Cosa farà adesso, dopo la vittoria?
«Mi piacerebbe molto saperlo (ride, ndr). Mi sento di dire in totale onestà che non cambierà molto la mia vita. Non cambierà il senso di responsabilità che sento nei confronti della mia comunità. Io spero di offrire uno spettacolo, sì, ma di inculcare messaggi che aiutino ad abbattere le barriere esistenti perché si possa vivere tutti all’interno di una società libera e inclusiva».

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Claudia Casiraghi

(Milano, 1991)

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