In questi giorni Jay Z sta scalando le classifiche con “Magna Carta Holy Grail”, il suo nuovo album intriso di autocelebrazione e arte.
“Cosa succederà/
io devo andare/
tutti voi vedrete/
Sono il Pablo dei giorni nostri/
Picasso baby”
L’ambizioso video della hit “Picasso Baby”, girato alla Pace Gallery di New York, e ispirato all’opera di Marina Abramović, “The Artist Is Present”, andrà in onda in anteprima negli USA venerdì 2 agosto sul canale HBO con il titolo “Picasso Baby: A Performance Art Film”.
Oltre a Picasso, Jay Z mette nella sua galleria in versi Rothko, Jeff Koons, Bacon, Warhol, Basquiat e molti altri artisti. Non è certo la prima dichiarazione d’amore per l’arte contemporanea da parte del rapper/imprenditore più famoso del mondo. Aveva già contribuito a lanciare lo street artist Bansky e affidato la copertina dell’album precedente,Watch the Throne, a Riccardo Tisci, direttore creativo della prestigiosa casa di moda Givenchy.
Come tutti i rapper, la sua vita e le sue canzoni sono incentrate sulle 3 esse: Sesso, Soldi e Successo.
Ma la sua parabola è unica. E questo suo nuovo video, con la partecipazione della Abramović, lo consacra, al di fuori dell’hip hop, quale uno degli uomini più influenti del mondo.
Non avevo mai seguito il rap. Venendo da una formazione musicale fortemente influenzata dal rock anni ’70 e dai cantautori italiani, la mia naturale evoluzione sarebbe stata l’indie rock dei giorni nostri.
Devo la mia conversione all’incontro con Stefano Serretta, artista milanese, con radici “street”, in rapida ascesa. Stavo facendo delle ricerche per una storia ambientata in una galleria d’arte e, per documentarmi, seguivo l’allestimento di una sua personale.
Avevamo appena fatto colazione, era ancora molto presto, fuori ancora buio, la galleria meravigliosamente deserta. Serretta, per accelerare il risveglio, collegò il suo Ipod alle casse. Conteneva praticamente solo hip hop. Da Tupac a Tyler the Creator, da Lord Bean a Salmo e Club Dogo. E, naturalmente, Jay Z. Gli chiesi di spegnere, che quella roba, specie la mattina, mi sembrava peggio della musica da discoteca.”Ascoltati i testi di Jay Z. Se ti interessa il mondo dell’arte, non puoi non apprezzarlo”. Da quel momento è iniziata una sorta di evangelizzazione che mi ha portato, nel tempo, a rivedere le mie posizioni e appassionarmi alla cultura di strada.
Agli albori, in America, si sparavano. Poi sono arrivati i soldi veri. E la rivalità tra le coste “Est” e “West”, costata la vita a Tupac e Notorius B.I.G, già ai tempi di Eminem, aveva dismesso i revolver.
I rapper, dopo aver scalato le classifiche e guadagnato miliardi, sono diventati uomini d’affari. Con stili di vita pacchiani, come tutti i nuovi ricchi che vengono dal ghetto. Piccoli Gatsby che, al posto delle camicie migliori che si siano mai viste, indossano i medaglioni più pesanti che le catene “compro oro” possano procurare.
Jay Z, che ha cominciato la sua scalata spacciando crack a Brooklyn, è il perfetto esempio di questa ascesa. All’inizio stava a Est. Ma, finita la guerra fra “gangsta” relegata nelle rime la violenza, dopo aver sancito il suo successo sposando Beyoncé, si è trasferito a “West Egg”, la terra promessa in cui inseguire la “luce verde” del ragazzo di strada innamorato diventato importante uomo d’affari descritto da Fitzgerald nel suo capolavoro. Il nuovo mantra dell’underground, appianando ogni divergenza, è diventato: “Tupac è grande. E Jay Z è il suo profeta”.
Dopo aver lanciato artisti del calibro di Kanye West e Rihanna, e guadagnato centinaia di milioni con il suo marchio di abbigliamento Rocawear, realizzato che i soldi, da soli, non fanno status sociale, Jay si è dato a imprese ancor più monumentali.
Diventato uno dei proprietari della squadra di basket New Jersey Nets ha deciso di spostarne la sede a Brooklyn (sarebbe come spostare il Napoli a Roma) per compiacere l’ondata di WASP alla moda che si stanno trasferendo nel suo quartiere e tradurre in realtà le promesse disattese dal Presidente coloured ai suoi “nigga”: Yes, we can!
Il recente film di Baz Luhrman, Il grande Gatsby, non è stato il capolavoro che attendevamo. Chi lo ha stroncato tout court lo ha fatto in malafede. Ma, rispetto alle altissime aspettative di chi aveva visto il trailer e conosceva il cast, la produzione e i lavori precedenti del regista, è stato comunque una delusione.
Il film non afferra la magia del libro. Ma il trailer si. Il trailer è il vero capolavoro. Colonna sonora: la canzone No church in the wilddel vero erede di Gatsby, sua vincente incarnazione contemporanea. Che celebra, con le sue rime, la nostra fame di possesso e venera ogni brand in maniera quasi religiosa, fronteggiando il senso di precarietà dell’esistenza con la costruzione di un impero economico simile a quello di Kane di Quarto Potere.
It’s something that a teacher can’t teach/
When we die the money we can’t keep/
But we probably spend it all cause the pain ain’t cheap, preach
(È qualcosa che un insegnante non insegna
Quando moriamo non possiamo tenerci i soldi
Ma probabilmente li avremo spesi tutti per allora perché il dolore non è economico, pregate).
Al suo ritorno con il nuovo album, Jay Z Gatzby, preda di una bulimia lenitiva, canta di arte, moda e celebrità. Il suo “Magna Carta Holy Grail” suona come una cattedrale costruita sulle macerie in cui celebrare il nostro presente, in vista di uno scintillante futuro.
