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Giancarlo Commare nel film "Eravamo bambini" (Minerva Pictures)
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Intervista a Giancarlo Commare: «Il mio sogno? Creare una grande città d'arte»

Attore emergente amatissimo dopo il successo di Skam Italia, ora è protagonista in sala del film Eravamo bambini, storia di amicizia e vendetta tesa e misteriosa. A lui è stato affidato il personaggio più ambiguo. «Mi ha divertito molto interpretarlo». Insieme parliamo di futuro, disagi giovanili e salute del cinema. «C’è ancora domani di Paola Cortellesi lo dimostra: i produttori dovrebbero avere più fiducia nel pubblico»

Riccioli bruni, modi affabili, tanta passione nel mestiere della recitazione, Giancarlo Commare è uno degli attori italiani emergenti più amati. Il ruolo che l’ha fatto brillare regalandogli popolarità? Quello del bad boy che poi così bad non è nella serie tv Skam Italia. Dopo essere stato il nuotatore in sedia a rotelle Manuel Bortuzzo nel film tv Rinascere e il protagonista della commedia sentimentale queer Maschile singolare e suo sequel Maschile plurale, ora il trentaduenne siciliano torna al cinema conEravamo bambini.

Dal 21 marzo nelle sale distribuito da Europictures, diretto da Marco Martani, Eravamo bambini è liberamente tratto dal testo teatrale Zero di Massimiliano Bruno, che insieme al regista è co-sceneggiatore. Commare ha accanto un manipolo di giovani attori come lui in ascesa, Lorenzo Richelmy, Alessio Lapice, Lucrezia Guidone, Francesco Russo e Romano Reggiani, e l’imperioso veterano Massimo Popolizio.

In un paese della costa calabrese un pacifico trentenne viene arrestato per aver minacciato con un coltello un carabiniere. È il preludio di un dramma corale che pulsa da thriller, una storia di amicizia e vendetta, in un crescendo di tensione e aspettative. Si intrecciano tre piani temporali che si alternano tra loro: l’interrogatorio al commissariato, il ricongiungimento improvviso dei sei amici nel paese calabrese, gli avvenimenti che ne determinano la loro amicizia vent’anni prima, da bambini.

A Giancarlo Commare è affidato il ruolo più sfuggente, quello di Peppino, il figlio dell’onorevole, che sembra osservare tutto in disparte, defilato, ma intanto determina. Lo abbiamo raggiunto al telefono per questa intervista.

In Eravamo bambini interpreti il personaggio più ambiguo. Com’è stato per te riuscire a bilanciare dolcezza, frustrazione, calcolo e mistero, in un film tra l’altro corale, in cui tutto deve essere definito con poche pennellate?

«È stato un lavoro che mi ha divertito, seppur abbastanza complicato. Sono partito da quello che i personaggi hanno vissuto tutti insieme: è uno dei ragazzi che ha vissuto il trauma, anche se allo stesso tempo è la persona più vicina a questo trauma. Si è sentito anzi costretto a rimanere bloccato dentro questo shock, ha vissuto tutta una vita abituandosi a costringersi, a mettersi da parte per far uscire una nuova parte di sé, corazzandosi. Questo è stato il fulcro che mi ha permesso di viaggiare all'interno degli altri, riconoscendo al personaggio la sua corazza che è diventata la sua pelle. Ho lavorato su un'asciuttezza su tutti i piani, concedendogli solo alcuni momenti in cui si lasciava un po'andare. Ho lavorato sull'introspezione e questo mi ha permesso di poter stare in ascolto piuttosto che in azione, scegliendo di agire solo in alcuni momenti necessari. Rispetto agli altri personaggi, a un certo punto della storia Peppino non ne è l'artefice, si ritrova in mezzo e a quel punto decide di partecipare; anche se era stato messo all’angolo, in panchina, si sente in diritto di partecipare. E poi, si sa, quando entra in gioco chi è rimasto a bordo campo è meno stanco degli altri, è pronto a giocarsi tutte le sue carte e magari fa anche gol».

E infatti il finale - ovviamente senza fare spoiler - è un finale aperto che però dà molto peso al tuo personaggio…

«Sì, la regia decide di non dare un'ultima immagine dove è tutto chiaro, lascia allo spettatore la possibilità di creare il finale. Gli scenari sono possibili. Quando ho letto la sceneggiatura io mi sono immaginato una conclusione, per poter affrontare quella scena un mio finale me lo sono creato, che poi può essere totalmente diverso da quello pensato dagli sceneggiatori. Nella mia visione, però, era l'unico finale possibile. Anche se non possiamo mai sapere cosa succederà dopo perché ovviamente non siamo nella testa degli sceneggiatori».

C'è qualcosa che ha risuonato in te del personaggio di Peppino, soprattutto nel rapporto con il padre?

«Mio padre non c’è da parecchio tempo. Per quanto possano sembrare simili, fortunatamente la mia e quella di Peppino sono due storie completamente diverse. Sono due padri diversi e due figli diversi. L'unica cosa in comune può essere la difficoltà ad avere un rapporto con un genitore, ma poi il resto è tutto abbastanza nuovo rispetto a quello che ho vissuto. Questo fattore che conosco mi permette magari di lavorare meglio su alcuni personaggi che affrontano il mancato rapporto con un genitore».

Credi che le colpe dei padri ricadano sui figli?

«Sì. L’ho sempre pensato e questo film in qualche modo sostiene la stessa cosa. Abbiamo una grossa responsabilità, sia quando siamo genitori sia quando siamo persone adulte, soprattutto nei confronti di qualcuno più piccolo di noi: sono convinto che l'azione di una singola persona può influenzare il futuro di tante altre, sia in negativo che in positivo. Per questo bisogna stare molto attenti a cosa facciamo o diciamo di fronte a qualcuno che riceve insegnamenti. Poi è anche vero che gli errori dei genitori possono trasferirsi nei figli come pure che le persone hanno la possibilità di crescere e vivere indipendentemente dai genitori. Parlando di me, mi ritengo fortunato perché ho avuto al mio fianco una guida eccezionale: mia madre. Ho avuto un punto di riferimento che mi ha seguito, amato e sostenuto ed è stato importantissimo. Riconosco che avrei potuto “perdermi” e invece ho avuto lei e la fortuna di vivere esperienze che mi hanno fatto capire che cosa mi faceva stare bene e che cosa no. Ho cercato di seguire le cose che mi facevano stare bene e non quelle illusorie».

La tua popolarità è lievitata dopo Skam Italia, serie tv che ha saputo parlare ai giovani attraverso i giovani, parlando anche di conflittualità genitori/figli, disturbi alimentari, omofobia, rigurgiti neofascisti... Invase dai social, forse più di tutti logorate dalla pandemia, credi che le nuove generazioni siano le principali vittime dell’incertezza globale regnante?

«È una domanda complicata. Il tema è molto ampio e c'è il rischio di generalizzare e banalizzare. Riconosco comunque che, anche se abbiamo mezzi che ci permettono di essere continuamente in contatto con tutti, anche se abbiamo consapevolezze maggiori rispetto al passato, i tempi non sono facili. Io non sono molto social e tecnologico. Se vado a un evento e vedo il divieto di fare foto sono felice perché so che, oltre a me, tutti i presenti si godranno l'esperienza e non faranno foto a caso, dimenticando celermente quello che hanno vissuto e immortalato. Purtroppo ormai c’è questa tendenza. Stiamo vivendo in una gabbia d'oro, le nuove generazioni ancor più visto che sono nate in questa realtà: per loro è questa la realtà, non quella che abbiamo conosciuto noi. Dentro questa sorta di gabbia d'oro si sentono al sicuro e padroni del mondo, ma uscendo fuori c'è tanta insicurezza. Se abituiamo le persone a parlare attraverso una tastiera, quando si allontanano da essa scatta il problema. Mi capita di fare dei laboratori con dei ragazzi che hanno l'età che avevo io quando ho iniziato questo mestiere e noto tanta differenza rispetto ai miei esordi: molti rimangono seduti intimiditi, non si lanciano intraprendenti a fare gli esercizi, non si buttano, perché hanno paura del giudizio. C’è un’ansia da performance: oggi tutti dobbiamo essere performanti. Nel mio caso, il vero momento in cui io ho iniziato a vivere Giancarlo è stato quando ho consapevolizzato delle cose e ho capito che alcune ansie, paure e insicurezze che mi portavo dietro in realtà non erano mie ma dei miei genitori. Nel momento in cui ho consapevolizzato ciò e sono andato a dirlo, “questa roba è vostra, tenetevela voi”, lì ho iniziato a vivere molto più serenamente, con il cuore più leggero. E ho iniziato semmai a vivermi le mie paure e non quelle degli altri».

Giancarlo Commare e Lucrezia Guidone nel film "Eravamo bambini" (Credits: Minerva Pictures)

Dall’affascinante playboy Edoardo Incanti di Skam Italia al ragazzo in tacchi a spillo aspirante drag queen di Tutti parlano di Jamie a teatro, da Antonio in Maschile singolare, che racconta l’omosessualità con naturalezza e senza cliché, al re Atys della serie tv Romulus, quale personaggio hai amato di più?

«Sinceramente non ce n'è uno che preferisco. I personaggi che interpreto sono persone che incontro: ognuna ha una storia da raccontare e ogni storia per me è meravigliosa. Forse ti posso dire che con qualcuno ho faticato di più e con altri meno. E con i personaggi in cui la sfida è più ardua il divertimento è maggiore perché devo sperimentare di più. Come nel caso di Peppino di Eravamo bambini. Ho dovuto lavorare su una fissità anche di sguardo, rimanendo a lungo con gli occhi sullo stesso punto, senza girarli, senza spostare l'attenzione. Per me è stato di grande divertimento».

Hai interpretato varie sfumature della virilità contemporanea…

«Come ti dicevo, purtroppo viviamo in una società che ci chiede sempre di performare e alla stessa virilità chiede di performare continuamente. Riceviamo spesso racconti di uomini che sono fatti solo in un determinato modo: io stesso non mi rispecchio in questo ritratto e conosco tanti colleghi e amici che non sono quello che lo stereotipo vuole. Pertanto, visto che con il mio lavoro ho la possibilità di scegliere e raccontare varie sfaccettature e mondi, mi diverto a farlo. Dover rispondere a un modello stereotipato di virilità è qualcosa di cui molti soffrono, quindi mi fa piacere affrontare il problema, anche se in maniera indiretta, rappresentando personaggi che non hanno quella mascolinità tossica, mostrando altri lati. Per far capire che siamo tanti, ognuno con le sue peculiarità, e tutti andiamo bene così come siamo».

Ti muovi tra teatro, tv e cinema. Cinema che negli incassi è stato vessato dalla pandemia, con la concorrenza serrata delle piattaforme. Però alcuni film hanno dimostrato che ancora il pubblico ha voglia di vedere bei film in sala, vedi il successo di C’è ancora domani di Paola Cortellesi. Tu che vivi gli ingranaggi del cinema da dentro, come te lo spieghi? È anche una questione di qualità del prodotto?

«Sicuramente lo streaming ha portato il pubblico a rimanere di più a casa piuttosto che andare al cinema. Ma penso anche che negli ultimi anni non ci sia stata tanta qualità nei prodotti, non ci si è sforzati troppo a realizzare qualcosa di interessante, si è preferito produrre quello che gli altri vogliono vedere o che si pensa che vogliano vedere. Con le piattaforme, tra l’altro, si genera il loop dell'algoritmo che va ad ammazzare l'arte: vedendo qual è il contenuto più cliccato, si tende a replicarlo visto che funziona, magari cambiando costumi e dialoghi, ma sostanzialmente riproducendo lo stesso prodotto. Ma questo uccide la qualità. E poi così il pubblico si abitua a questo meccanismo senza aver voglia di scoperta. Inoltre con lo streaming probabilmente gli spettatori si sentono più liberi di vedere ciò che vogliono, anche lontano da occhi indiscreti, mentre invece andando al cinema in qualche modo si dichiara quello che piace. Prima nessuno si preoccupava di ciò, ora invece a quanto pare il pubblico lo tiene in considerazione. Però l'esempio che hai fatto, C’è ancora domani di Paola Cortellesi, è uno di quei film che racconta bene quello che vuole raccontare ed è la dimostrazione che la gente non è stupida, cosa che ripeto a grandi lettere e sempre ripeterò a chi sta dietro il mondo del cinema. Non c’è bisogno di sottolineare le cose alle persone e C’è ancora domani ne ha dato l'esempio: dovremmo avere più fiducia nel pubblico. Lo dico per chi produce e per chi decide di creare dei progetti. Dovremmo semplicemente fare arte perché l'arte la capiscono tutti, arriva alla pancia. Quindi inviterei a fare più operazioni alla Paola Cortellesi che non operazioni che possono comodamente trovarsi a portata di telecomando. È vero che le piattaforme hanno comunque i loro vantaggi perché permettono, ad esempio, ad alcuni che non hanno la possibilità di andare in sala, magari per gli orari, di vedere più contenuti e ricevere più informazioni. Però dovrebbe esserci un equilibrio tra cosa posso vedere in piattaforma e cosa al cinema. Senza dimenticarci che la meraviglia del cinema, così come del teatro, non è solo poter vedere meglio, su grande schermo, l'espressione dell'attore, senza distrazioni, ma è soprattutto comunità. È un’esperienza di condivisione. In sala ci si rende conto di come reagiscono gli altri a determinate sequenze, alla fine è possibile avere un confronto, e questo alimenta sia la fantasia che l'empatia. Quindi invito a fare il più possibile esperienza di arte in comunità».

Tra i film che vedremo tra poco in sala c’è Eterno visionario di Michele Placido, in cui interpreti uno dei figli di Luigi Pirandello? Che esperienza è stata lavorare a un film su uno dei più grandi scrittori siciliani, per te che per di più sei siciliano?

«In realtà all’inizio sono rimasto un po’ deluso sul fattore Sicilia perché pensavo di dover preparare il ruolo se non in siciliano comunque con una leggera sporcatura. Ho invece scoperto che i figli hanno vissuto a Roma e quindi non c’è il siciliano, ma neanche un'inflessione romana. Volevano un'asciuttezza di lingua italiana. Lo stesso attore che interpreta Pirandello (Fabrizio Bentivoglio, ndr) non ha lavorato sul siciliano, ha usato la cadenza solo in alcuni momenti soprattutto laddove si racconta la Sicilia. È stata comunque una bellissima esperienza, è stato bello tornare in Sicilia e girare alcune scene ad Agrigento, paese vicino al mio, con mamma che veniva a trovarmi. Con Placido è stato un lavoro di crescita: ogni regista che incontro mi insegna qualcosa. Lui mi ha fatto capire che l'arte è in continua evoluzione e non c'è niente di prestabilito. L'arte è movimento, è istinto, quindi puoi arrivare sul set e cambiare completamente quello che era stato detto fino a quel momento. Spirito di adattamento, improvvisazione, essere sempre pronti a cambiare idea: ovviamente l’avevo già imparato in Accademia ma raramente capita di trovare persone che lo fanno mettere in pratica. È stato molto interessante da vivere, a livello professionale mi ha arricchito molto».

Avessi la bacchetta magica, cosa chiederesti al tuo futuro?

«Che bella domanda! Vorrei realizzare il mio sogno, che poi diventerebbe probabilmente il sogno di molti: con la bacchetta magica creerei una grande città d'arte. È uno dei progetti che vorrei prima o poi realizzare nella mia vita. Immaginati una sorta di Sapienza, con tanti complessi, dove però si produce arte, dove sono accolti gli artisti che altrimenti non avrebbero possibilità di fare arte, a cui sono forniti gratuitamente strumenti, alloggi e tutto il necessario. Così che possano creare arte da portare nel mondo».

Molto bello, speriamo allora che questa bacchetta arrivi presto.

«Me lo auguro», in un sorriso.

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Simona Santoni

Giornalista marchigiana, da oltre un decennio a Milano, dal 2005 collaboro per Panorama.it, oltre che per altri siti di testate Mondadori. Appassionata di cinema, il mio ordine del giorno sono recensioni, trailer, anteprime e festival cinematografici.

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