
Una volta ho letto in un libro di cucina una frase che mi lasciò di stucco. Si stava parlando di come fare il coniglio, se al forno o alla cacciatora, mi pare, quando l’autore si lascia scappare: in cucina, non conta tanto quello che ci piace, quanto quello che non ci piace. A definirci, continuava quel filosofo forse inconsapevole, sono più le nostre avversioni che non le nostre predilezioni.
Sono d’accordo. E questo vale soprattutto per quanto riguarda l’arte. Non solo dire «questo non mi piace» mi piace molto (il che – rientrando a tutti gli effetti nella categoria del preferire – non fa testo per aporia interna all’enunciato stesso), ma quando sento qualcuno che pronuncia una frase del genere io mi metto subito in ascolto. La melassa estetica è quanto di meno interessante esista: l’indifferenziato pollice-verso pseudo-sociale è solo il primo passo verso l’adorazione e l’amore livellati tra loro e con i loro contrari, intesi in un senso, ovviamente, tutto affatto diverso da quello in cui li intendeva Turgenev, ad esempio.
“Adoro!”: ecco la parola da dire per farmi immediatamente spegnere il cervello, e indirizzarlo verso un qualsiasi oggetto inanimato nella sala. Invece: «A me non piace» risuona di una sua particolare qualità affermativa che l’espressione «mi piace» ha completamente perso.