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In ricordo dello scomparso Raffaele La Capria

Aveva quasi cent'anni ed era uno dei monumenti della letteratura contemporanea italiana. Giovanna Stanzione: "Amava recitarmi i versi del poeta Omar Khayyâm. Era di una profondità unica"

Raffaele La Capria (Napoli 3 ottobre 1922 –Roma 26 giugno 2022) dopo essersi laureato in giurisprudenza all'Università degli Studi di Napoli Federico II nel 1947 e dopo aver soggiornato in Francia, Inghilterra e Stati Uniti, nel 1950 si trasferì a Roma e nel 1957 frequentò l’Harvard l'International Seminar of Literature. Collaboratore delle pagine culturali del Corriere della Sera, dal 1990 è stato condirettore della rivista letteraria Nuovi Argomenti. È autore di radiodrammi per la Raie co-sceneggiatore di molti film di Francesco Rosi, tra i quali Le mani sulla città (1963) e Uomini contro (1970) e ha collaborato con Lina Wertmüller alla sceneggiatura del film Ferdinando e Carolina. Nel 1961 vinse il Premio Strega per Ferito a morte, nel settembre del 2001 ricevette il Premio Campiello alla carriera e nel 2002 gli venne assegnato il “Premio Chiara”, sempre alla carriera.

Nel 2005 vinse il Premio Viareggio per la raccolta L'estro quotidiano. Nel 2011 gli è stato assegnato il premio Alabarda d'oro alla carriera per la letteratura; nel 2012 il Premio Brancati. Nel 2003 le opere di Raffaele La Capria sono state pubblicate in un volume della prestigiosa collana "I Meridiani", a cura di Silvio Perrella; una nuova edizione riveduta e aggiornata, in due volumi, è stata pubblicata nel 2015. La Capria ha anche tradotto opere per il teatro di autori come Jean-Paul Sartre, Jean Cocteau, T. S. Eliot, George Orwell ecc. e introdotto o prefato edizioni di opere di Ignazio Silone, Giosetta Fioroni, Giuseppe Patroni Griffi, Antonio Ghirelli, Furio Sampoli, Randall Morgan, Damiano Damiani, Eduardo De Filippo, Ruggero Guarini, Sandro Veronesi, Stendhal, Predrag Matvejević e Stefano Di Michele. Dal 1966 al 2019 -anno della scomparsa- è stato sposato con la l’attrice Ilaria Occhini.

Panorama.it ha dialogato con Giovanna Stanzione, scrittrice salernitana che due anni addietro si era confontata con La Capria in “La vita salvata” (Mondadori, 2020):

Niente male aver dialogato con La Capria proprio all’esordio.

«Vivevo da anni a Torino, lavoravo al mio primo romanzo che mi artigliava cuore e mente, e non mi riusciva di scriverlo ma non mi riusciva neppure di liberarmene, quando ricevetti una telefonata che mi richiamò a casa. Rimasi in silenzio mentre dall’altra parte la voce parlava e tutto intorno riaffiorarono, dalle mura dell’appartamento in affitto, quelle altre mura di casa mia, la prima che abbia mai visto, piene di scaffalature bianche lattee e su di loro, di traverso e dritti, impilati e incastrati, i libri».

Una telefonata premonitrice.

«Tra tutti i libri degli scaffali, che doppiavano la mia statura in altezza, ricordo di averne preso una. Avevo allora dieci, forse undici anni. Sulla copertina di quel beige spento c’era il disegno colorato di un pesce che mi attraeva, una spigola forse, e sopra quel pesce stilizzato la scritta dal titolo Ferito a morte. Più sopra ancora il nome dell’autore, Raffaele La Capria».

Un incontro indiretto, molti anni addietro.

«Già, ma fu l’inizio di tutto. Cosa volesse dire quel titolo e quel libro non lo seppi fino ad alcuni anni addietro quando Raffaele La Capria si sarebbe materializzato nella mia vita. L’incontro avvenne nella sua Posillipo».

Incontro assolutamente forte.

«“Pausilypon, lei sa cosa significa” mi chiese La Capria in uno dei nostri primi incontri. “Una pausa dal dolore”, mi rispose secco. Un nome adatto al mio stato d’animo. Ogni volta che tornavo nei miei luoghi mi sembrava che tutto fosse uguale e tutto fosse cambiato, come il mare, che è sempre lì ma non è mai lo stesso. Queste sensazioni mi provocò il primo incontro con la capria, appena due anni addietro».

Ma da allora la vostra fu una frequentazione praticamente quotidiana.

«Una delle ultime volte che vidi Raffaele La Capria, nel periodo in cui preparavamo il nostro libro, mi recitò dei versi cui teneva particolarmente: erano del poeta Omar Khayyâm, ed erano stati per lui fondamentali nel corso dell’intera vita. Parlavamo della morte e mi diceva che lui non ne aveva paura e, guardandolo negli occhi, sentivo che era effettivamente così: che era così pieno di vita da non poter avere paura della morte, perché della vita non è che un altro accadimento. Capii che quei versi erano una sorta di talismano per lui e che me le stava donando».

La ricordiamo quella poesia?

«La poesia diceva così: “ C’era una porta, ma non trovai la chiave. / C’era un velo, ma non traspariva. / Brevi parole tra te e me, per breve tempo / Ci furono – e poi più niente di te e di me.” Era seduto in poltrona mentre le recitava, una gamba accavallata sull’altra, il gatto in grembo, un fascio di luce che giocava ai suoi piedi».

La sua tristezza è palpabile…

«Penso ora a quella poltrona vuota di lui, a quella stanza con i libri non letti sulle quattro pareti, la carta da parati verde consumato, la terrazza con vista sul mare dei tetti di Roma, e ogni cosa mi appare evanescente e irreale. Lui solo ha consistenza e realtà. I suoi occhi piccoli e brillanti come fessure di una persiana, le gambe eleganti, le mani curate. I suoi contorni si fanno vividi, più esistente lui di qualsiasi cosa lasciata indietro, perfino di me».

Non lo conosceva da molto.

«In effetti ho conosciuto La Capria in età avanzata, a 97 anni, ma attraverso i suoi libri mi pareva di conoscerlo in ogni sua età. E infatti, nel corso delle nostre conversazioni, capitava che quelle età si scambiassero e si alternassero e accadeva che tu ti ritrovassi a parlare indifferentemente con ciascuna di loro: l’adolescente irrequieto e impaziente, il bambino animato dallo stupore del mondo, l’uomo maturo dalla mente antica che pareva contenesse in sé la saggezza di tutti gli avi di tutti i popoli mediterranei, greci, etruschi, sumeri, egizi».

Un aneddoto delle vostre conversazioni!

«Mi disse una volta che lui scriveva delle persone della sua vita che non c’erano più perché i morti si ricordassero di lui, di quella parte di sé che apparteneva loro. Diceva che le nostre vite si intrecciano in misura incommensurabile e che la vita di ognuno non è mai solo la propria ma è anche quella di tutti gli uomini che l’hanno attraversata e riempita con la loro presenza. E che questo intreccio non finisce con la morte, ma occorre che i morti continuino a ricordarci e che noi, ricordando i morti, ricordiamo la parte di noi stessi che appartiene loro».

Questo vale anche per lei?

«E ora che ricordo La Capria, penso che alla sua vita è intrecciata la parte migliore di me. Quel giorno, quando mi recitò i versi di Khayyâm, gli chiesi che cosa significavano. Mi disse che toccava a ognuno trovare il proprio significato. Allora gli domandai se lui l’avesse trovato. Sorrise. “Nel corso della mia vita mi hanno detto sempre cose differenti.” “E che cosa le dicono ora?” “Fanne un mistero, non farne un dramma”».

Toccante il vostro dialogo, alla fine di quell’avventura editoriale.

«“Io sto morendo”, mi disse La Capria con voce tranquilla. Mi girai, un giorno a Roma, verso di lui. Aveva nello sguardo una tale serenità, una tale pienezza di vita, che non riuscii a sentirmi triste. Non in quel momento. “So che questa sarà la mia ultima opera che lascerò”, mi disse osservando il cielo terso una mattinata soleggiata nella Città Eterna. “Per questo sono contento che sarà lei a scriverla” aggiunse rivolto a me».

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Egidio Lorito