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La «pasta» in gioco

La «pasta» in gioco

Aspettiamoci forti rialzi per spaghetti, penne, pizza… La crisi del grano partita dal Canada investe tutti i mercati. E nel 2022 sarà caccia a questa «materia prima».


«Sono 60 anni che faccio la pasta e non mi era mai capitato. Mi è toccato alzare il prezzo di 30 centesimi, il 10 per cento». Dino Martelli – fresco vincitore con le sue penne classiche del The WineHunter Award che è un po’ l’Oscar della semola – nel suo pastificio di Lari (Pisa) produce 2 mila quintali di pasta all’anno «quando la Barilla li fa in cinque ore!», dice. È considerato il gioielliere dello spaghetto. L’azienda s’avvia al secolo di vita e a Lari, sotto il castello, gli hanno dedicato la viuzza dove si apre la bottega: via dei Pastifici.

Martelli (con tutta la famiglia nell’azienda) insacchetta spaghetti, spaghettini, fusilli «torre di Pisa» e penne nella «carta gialla come usava un tempo», e adopera solo grano biologico toscano. «Pensavo di essere al riparo dagli aumenti, invece la crisi di produzione del grano partita dal Canada ha travolto tutti. E badate bene, questi prezzi valgono fino a dicembre, perché a gennaio non si sa che cosa succederà».

Massimo Mancini, mastro pastaio marchigiano che ha riscoperto i grani antichi e produce da solo i semi che trasforma, ha un problema analogo e diverso: hanno alzato gli affitti dei campi coltivati e rischia che la sua filiera «cortissima» s’interrompa. Lo stesso vale a Gragnano per gli Zampino che mandano avanti da generazioni il pastificio Gentile, l’atelier del pacchero, e per Carla Latini, pastaia gourmet visto che i suoi «trucioli» inventati da Gualtiero Marchesi sono ambitissimi dai ristoranti, che dice: «Lavoriamo quasi solo grano Cappelli marchigiano, ma il mercato è in forte tensione. Ci toccherà scaricare gli aumenti sul prezzo finale, però temiamo che ci venga a mancare la semola».

Bruno Sebastianelli, presidente della cooperativa «la Terra e il Cielo» che fa pasta biologica da 700 tipi di grani antichi – si chiama miscuglio evolutivo – osserva: «Fortuna che da decenni noi applichiamo il cosiddetto equo compenso: stabiliamo con i soci conferitori il costo di coltivazione aumentato della giusta remunerazione del lavoro e questo ci consente di ammortizzare i picchi di speculazione, ma il mercato quest’anno è impazzito».

Rischiamo a luglio 2022 di restare senza pasta. Perché se si immagina che la faccenda riguardi solo i piccoli pastifici con le loro produzioni esclusive per quantità e qualità (essicazioni di almeno 50 ore, trafile dal bronzo all’oro, acque di sorgente), ci si sbaglia. L’allarme arriva anche dagli industriali pastai e già alcune catene di discount che vendono le «private label» (le etichette dei supermercati prodotte da contoterzisti) hanno praticato rialzi di 10-15 centesimi al chilo: in percentuale, sono rincari di oltre il 30 per cento.

Cosa succede lo spiega bene Giuseppe Ferro, a.d. de La Molisana e uno dei più importanti industriali molitori del nostro Paese: «Mancano almeno 3 milioni di tonnellate di grano sul mercato, viviamo una situazione di tensione mai vista prima, bisogna rafforzare le filiere».

Ma che cosa sta accadendo? Cerchiano di capirlo con i numeri. L’Italia è il primo consumatore al mondo di pasta: ne mangiamo circa 24 chili a testa l’anno (con la pandemia il consumo si è dilatato) ma per il grano duro dipendiamo per oltre il 40 per cento dall’estero. Su 15 milioni di tonnellate di pasta confezionata nel mondo noi ne produciamo 4 milioni, un piatto su 3 consumato in America è italiano, 2 su 3 di quelli che si mangia l’Europa è tricolore, per un fatturato di quasi 5,3 miliardi di cui il 56 per cento viene dall’export. Ma tutto rischia d’incepparsi perché il Canada quest’anno ha prodotto metà del suo grano (3 milioni di tonnellate contro una media di 6,3), in Usa la siccità ha ridotto del 40 per cento i raccolti e la Russia, l’altro grande venditore di grano, ha avviato una politica autarchica, con una forte tassa all’export verso l’Occidente per favorire il cliente cinese.

Nel mondo invece c’è sempre più fame di semola. La Turchia ci fa concorrenza sulla pasta (ha aumentato in 5 anni la sua produzione del 77 per cento) e tutto il Maghreb devastato dalle crisi politiche è ormai un compratore e non un produttore di cuscus. Risultato le scorte mondiali ammontano a 7 milioni di tonnellate, il contratto future a Chicago con consegna a tre mesi sta a 740 dollari a tonnellata, il grano italiano a 500 euro. A questi prezzi c’è chi tesaurizza e rilascia pochissimo grano sul mercato. Il rischio è arrivare a luglio senza cacio (la crisi del latte sta chiudendo una stalla su tre) e senza maccheroni. La soluzione? Aumentare la produzione nazionale, anche perché ormai vogliamo il prodotto di filiera tricolore.

Lo scorso anno vendita e incasso di questo tipo di pasta sono saliti del 18 per cento (il fatturato degli spaghetti nella Gdo è circa 760 milioni). Il prezzo medio è stato 1,39 euro al chilo, ma quest’inverno si arriverà ai 2 euro. E da gennaio non si sa cosa succede. Il prezzo degli spaghetti d’autore che viaggia attorno ai 3,60 euro al chilo non è poi così lontano dal prezzo di quelli totalmente industriali.

Chi tiene botta sui rincari è le Stagioni d’Italia. È il marchio di Bonifiche Ferraresi, la nostra più grande azienda agricola, che produce solo grano duro senatore Cappelli (è il vanto della nostra cerealicoltura, un grano eccezionale che fu creato dal genio della genetica Nazareno Strampelli). Federico Vecchioni, l’amministratore delegato di BF, da tempo raccomanda «una filiera integrata del grano duro in Italia, l’incremento di produzione e la messa a coltura anche di terreni marginali». La redditività a questi prezzi c’è, aumentare la produzione per noi è indispensabile. Quest’anno abbiamo raccolto circa 3,9 milioni di tonnellate di grano duro e ce ne servono altri 1,6 milioni. Sempre che ce li vogliano vendere. Ma ciò che capita con la semola accade anche con la farina di grano tenero, dove siamo ancora più deficitari: ne importiamo il 60 per cento. Produciamo grosso modo 3,2 milioni di tonnellate di grano tenero, altri 4,8 milioni di tonnellate le acquistiamo fuori a carissimo prezzo. Italmopa, l’associazione dei mulini industriali con il presidente del settore «tenero» Giorgio Agugiaro ha fatto notare: «Noi lavoriamo 5,4 milioni di tonnellate di frumento che diventano 4 milioni di farina per fare pane, pizza, dolci e alimentare anche l’export. Il prezzo del grano rappresenta il 70 per cento dei nostri costi; con i rincari di oggi non ci stiamo dentro». Il frumento sta attorno a 320 euro a tonnellata, l’aumento è di oltre il 30 per cento e non se ne trova.

Se sono a rischio gli spaghetti, la pizza è messa anche peggio perché abbiamo drasticamente ridotto le superfici coltivate a frumento, passate da 3 milioni ettari di 20 anni fa a meno di 700 mila ettari di oggi. La crisi delle farine dunque pone un problema serio: ridare centralità all’agricoltura nazionale aumentando il reddito di chi coltiva per stare al riparo dalla speculazione. La grande finanza oggi si è lanciata sulle materie prime. Nei prossimi mesi tornerà di moda un vecchio slogan pubblicitario: che peso la spesa.

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