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Cerea: «Per noi cucinare è una religione di famiglia»

Cerea: «Per noi cucinare è una religione di famiglia»

La mamma che tiene uniti tutti e, ancora oggi, «distribuisce gli stipendi». Fratelli e sorelle che fin da bambini (appena levato il grembiule) sono cresciuti con il culto della perfezione ai fornelli. Una passione che gli ha fruttato sette stelle Michelin nei vari ristoranti aperti fino a oggi. Storia dei Cerea che da Bergamo sono partiti alla conquista del mondo. E non hanno alcuna intenzione di fermarsi.


Ci vorrebbe un drone, non bellico, ma con potenti telecamere, per svolazzare nei luoghi dell’impero Cerea. Si tratti dello storico ristorante tre stelle Michelin e resort di lusso a Brusaporto, un tiro di fucile da Bergamo, o della trattoria – anch’essa di alto lignaggio – DaV nella CityLife milanese; siano i ristoranti a Sankt Moritz, Shanghai e Saigon, o il locale acchiappavip sulla piazzetta di Portofino; la pasticceria Cavour a Bergamo e, in estate, nell’ex Monastero di Astino, per finire con la galassia di collaborazioni e la miriade di eventi raggiunti dal loro catering. Ovunque il segno della famiglia Cerea si fa sentire, incarnato in format anche sensibilmente diversi, sempre nel perimetro della qualità estrema. Una fissa del fondatore Vittorio, scomparso nel 2005 a 69 anni, confermata dagli eredi: Bruna (vedova del capostipite) e i fratelli Enrico detto Chicco, Francesco, Roberto detto Bobo e le sorelle Rossella e Barbara; più 13 nipoti, i grandi già danno una mano nell’impresa familiare. Parliamo, in rappresentanza della squadra, con il primogenito Chicco (cuoco assieme a Bobo) e con Francesco, responsabile della ristorazione esterna e della cantina.

La religione del lavoro è una condanna di famiglia, per voi Cerea. Lei, Chicco, è entrato in cucina a otto anni…

Sì, ma era un gioco. Nella nostra trattoria, allora a Bergamo, vedevo papà alle prese con scampi, risotti di mare, gamberi, triglie. Si era messo in testa, e aveva ragione, di portare il pesce in una città che non lo conosceva. Abitavamo sopra il ristorante. Tornato da scuola, dopo qualche minuto di cartoni in tv mi precipitavo in cucina. Dare una mano venne spontaneo.

Non è pentito di esserci rimasto, tra gamberi e triglie?

Per niente. Sono ai fornelli, con Bobo, a mettere a punto i piatti, ma giro il mondo, sia per il nostro business sia per passione. Credo che uno chef debba continuare ad aggiornarsi, a provare le cucine del mondo. Quella italiana è ai massimi livelli, ma c’è la cucina del nord Europa, della Spagna, del Giappone, del Perù. Di bravi ce ne sono tanti.

La cucina italiana ha ancora forza propulsiva?

Certamente, è sempre più apprezzata nel mondo e non ha ancora espresso tutte le sue potenzialità. La mia generazione ha fatto capire che non è soltanto una cucina della nonna o della mamma, basica, nostalgica, ma proprio grazie ai nostri prodotti eccellenti può diventare fine dining. L’Italia poi è il Paese dove mediamente si mangia meglio, difficile trovarsi proprio male in un ristorante o trattoria. Chiedete ai turisti: all’estero si rischia di più.

Ma non vi fermate mai, come brand Cerea? Lo chiediamo a Francesco.

Non ci precludiamo ulteriori espansioni. L’Asia è molto promettente e anche in Italia ci sono margini di sviluppo. Intanto registriamo un andamento più che positivo, in ogni nostro ristorante e nel catering, parte rilevante del business. Ricordo che all’inizio era visto con arricciamenti di naso da parte dei critici gastronomici: non riuscivano a credere che chi brilla nelle guide potesse dedicarsi, senza rinunciare alla qualità, a quella che io chiamo «ristorazione esterna».

Non ci sono più strascichi degli orribili anni pandemici?

Francesco: Siamo tornati non solo agli anni precedenti al Covid, facciamo numeri migliori. Il nostro ristorante a Portofino, all’interno dello Splendido Mare del gruppo Belmond, marcia che è una meraviglia, e il DaV a Milano riaprirà a settembre, dopo le ferie, con un ampliamento nei coperti per fare fronte alle richieste. Non avrei mai pensato che la rinascita fosse così veloce, ci ha preso quasi in contropiede.

Tutti si lamentano che non c’è personale, i Cerea sono il bengodi?

Francesco: I giovani pretendono un po’ troppo di conoscere il lavoro, che invece va coltivato, imparato e insegnato. Noi abbiamo un’Academy interna allo scopo, per dare specializzazioni ai dipendenti che accettano di seguire i corsi, dentro l’orario di lavoro. Ancora oggi in Italia non c’è una vera scuola per avvicinare i ragazzi ai mestieri della ristorazione, che richiedono impegno e orari non certo comodissimi.

La politica può fare qualcosa di positivo per il lavoro?

Intanto, un passo è stato fatto, eliminare il Reddito di cittadinanza.

Come funziona il consiglio di amministrazione, ovvero la catena di comando della vostra famiglia?

Chicco: La mamma è il nostro faro, presiede le nostre riunioni settimanali. Quando c’è un po’ di maretta tra noi, e può capitare, è lei che riesce a mettere subito le cose a posto. Bisogna poi dire che abbiamo direttori generali e manager che ci aiutano a traghettare l’azienda dalla dimensione familiare a una realtà più strutturata. Inoltre ci stiamo informatizzando, scelta che richiede uno sforzo anche economico non indifferente, ma ci renderà più forti sul mercato.

Francesco: Dice bene Chicco, la mamma è il nostro faro. Con una battuta si può dire che è lei a pagarci gli stipendi a fine mese. Poi bisogna sottolineare che il potere femminile in famiglia ha sempre più importanza. Nostra sorella Rossella coordina tante cose, ed è giusto così.

Con la nuovissima generazione, i 13 nipoti, la dinastia Cerea si è assicurata il futuro.

Chicco: I più grandi vanno all’università, nelle pause degli studi danno un mano in azienda, annusano che cosa significa questo lavoro nato da una visione di mamma e papà, che provenivano da una famiglia umile e partirono praticamente da zero, da un bar con tavolo da biliardo. I nostri figli non hanno alcun obbligo di continuare le attività di famiglia, possono nutrire altre ambizioni, seguire altre carriere. Ma stanno scoprendo che questo è una bella attività. Se mio papà potesse vederci dal Paradiso, sarebbe certamente orgoglioso di ciò che stanno facendo i suoi figli e figlie, con la guida di mamma.

Ci si abitua alle stelle Michelin? Ne avete tre a Brusaporto, due a Sankt Moritz, due a Shanghai. Sette stelle in tutto. Solo Enrico Bartolini, che ne ha in totale ben 12, è più «ricco» dei Cerea.

Chicco: Un albo d’oro iniziato nel 1978, con la prima stella presa quando eravamo ancora nel centro di Bergamo. Lì abbiamo avuto anche la seconda, nel 1996, mentre la terza è arrivata a Brusaporto, nel 2010, quando papà non c’era più. Per inciso, quel trasferimento fuori città fu difficile da far digerire a mio padre. Ma una volta effettuato ci mise poco a dirsene entusiasta. A Brusaporto c’era più spazio, si poteva pensare in grande. Peccato che morì poco dopo l’inaugurazione. Ma stavamo parlando delle stelle Michelin. Che dire: è sempre una grande emozione. Le ho raccontato di quella volta che i miei fratelli mi hanno fatto uno scherzo non riuscito?

No, racconti.

Tornavo da un viaggio in Indonesia. Mi capita tra le mani, in aereo, una copia del Corriere della Sera e leggo che abbiamo preso la seconda stella Michelin. Allora non c’era Internet, i cellulari non erano così diffusi. Leggo e rileggo la notizia, quasi incredulo. Non sto più nella pelle dalla gioia, non vedo l’ora di arrivare a Bergamo per condividere la mia felicità con la famiglia. In aeroporto a Milano trovo i miei fratelli, stranamente con facce da funerale. Non mi lasciano il tempo neanche di salutarli e mi dicono: Chicco, tieniti forte, ci hanno tolto la stella. Ma io sventolo sotto i loro nasi il giornale e li sbugiardo. Che risate, con quei matti di fratelli.

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