Sarà l’aumento dei prezzi, sarà la voglia di cucinare che ha contagiato tutti durante l’epoca Covid, ma la tendenza del momento è la riscoperta delle ricette di una volta. Con buona pace degli chef stellati che hanno problemi di cassa e dei food influencer, bravi alla tastiera e molto meno ai fornelli.
Se non si ha la pretesa di diventare un cuoco di baldacchino, non credo sia necessario, per riuscire, di nascere con una cazzeruola in capo; basta la passione, molta attenzione e l’avvezzarsi precisi: poi scegliete sempre per materia prima roba della più fina, ché questa vi farà figurare».
Il valore della cucina italiana? È tutto qua. L’ha codificato Pellegrino Artusi nella sua «Divina Commedia» dei fornelli, ossia La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene.
In questi ultimi tempi è finita sulla graticola delle polemiche social – tantissimo fumo, pochissimo arrosto – Benedetta Rossi, che è il prototipo della vergara. Dicesi vergara, in dialetto marchigiano, colei che sovraintende agli uomini che lavorano i campi, la reggitrice della famiglia che sfama tutti.
I «gastrofighetti», una sottocategoria dello snobismo gastronomico alimentata da quel pernicioso fenomeno che sono i siti di recensioni, se la pigliano con la Rossi perché dicono: fa ricette banali, usa prodotti da supermercato, cucina a casa sua (nel bell’agriturismo di Altidona, a due passi dall’Adriatico tra Fermo e Macerata, che si chiama appunto la Vergara) senza alcuna tecnica.
L’hanno così bombardata che lei, biologa con tanto di laurea, ha sbottato e in un video ha ribaltato le accuse: «Prendetevela pure con me, ma non insultate chi mi segue, spesso sono persone che hanno pochi soldi in tasca e cucinano come possono quel che possono». Invece i gastrofighetti spesso cercano di farsi offrire la cena in cambio di una recensione. Capita sovente che li sbattano fuori dai ristoranti. La disputa ha acceso i cuori e i fornelli e mentre Benedetta Rossi vende (pubblica con Mondadori) centinaia di migliaia di copie di libri, alcuni «stellati» chiudono causa buchi nei conti.
Non sarà che lo scintillante mondo delle stelle, che consente ai gastrofighetti di sbarcare il lunario tra consulenze di comunicazione social e marchette alimentari, dove si spende molto e si capisce poco di quello che si mangia, ha stancato?
Non è un caso che la tendenza del momento sia il ritorno alla cucina semplice, autentica, con la spesa a costo contenuto, con i fagottini fatti con la pasta sfoglia pronta e il petto di pollo con i piselli surgelati. L’Istat lo certifica: aumento dei costi per generi alimentari del 12,6 per cento, diminuzione dei consumi al 4,9 per cento. Per necessità e per virtù è tornata in auge la cucina domestica, raccolta nel Talismano della felicità, quella di Suor Germana, quella che guarda con grande attenzione al territorio e alla qualità dei prodotti o come quella proposta da una rivista come Sale&Pepe.
A riprova sta il crescente successo di alcuni personaggi che certo non piacciono ai cultori del pepe di Sichuan o di Sarawack, agli adepti alla zuppa di licheni, ai nostalgici del mantra todo es chimica di Ferran Adrià che ha trasformato in un museo il suo ristorante dove racconterà «la follia gastronomica vissuta fino al 2011 quando chiudemmo».
Tra loro c’è Giorgione, al secolo Giorgio Barchiesi, romano ma perugino d’adozione (città dove ha studiato veterinaria), cuoco per improvvisazione. Ha fatto di tutto prima di trasformarsi in globetrotter dei fornelli per esigenze televisive: ora conduce Giorgione a casa tua, cioè va nelle case e si mette ai fornelli. È l’alter ego di Benedetta Rossi che invece fa entrare le telecamere a casa sua. Non è niente di diverso da ciò che facevano Ave Ninchi – anche lei marchigiana di Ancona – e Luigi «Gino» Veronelli che con A tavola alle 7 dal 1974 in poi sono stati pionieri delle cucine televisive. Il format era sempre quello: parlare di prodotti e metterli in pentola acconciandoli secondo gli insegnamenti della nonna.
Quelli erano i favolosi anni della margarina e chissà che direbbero oggi i gastrofighetti. Il fatto è che quell’antico concetto di cucina resta, mentre quella dei «cuochi d’artificio» (come ogni moda) si consuma in fretta. Anche Antonino Cannavacciuolo, quando si affaccia da Masterchef ha le penne del pavone del cosiddetto fine dining, ma quando compare in Cucine da incubo (una sorta di pronto soccorso per ristoranti in crisi) si attacca alla semplicità della tradizione e gli spot pubblicitari fioccano non per lo stellato, ma per il cuoco verace.
Lo dicono anche i numeri. Gli stellati hanno avuto i costi aumentati del 43 per cento e ormai hanno clientela ristretta: difficile cenare con meno di 200 euro a testa. A leggere quello che dice la Fipe (Federazione dei pubblici esercizi) si scopre che il fatturato complessivo della ristorazione è aumentato (va verso gli 85 miliardi a livelli pre-pandemia, ndr), ma la gente tenta di spendere meno: si va solo a cena e all’aperitivo lungo, lo scontrino medio si abbassa. Lo smart working ha riproposto il pranzo a casa a mezzogiorno, la crisi ha ridato fiato alla mitica schiscetta (il pasto da portarsi in ufficio) e non è un caso che la Fipe segnali una perdita secca di diecimila esercizi e stimi una profonda caduta di fatturati per bar e tavole calde.
C’è bisogno di riacculturarsi alla cucina di tradizione. Questo decreta il successo del modello Benedetta Rossi e Giorgione, di cui sono interpreti anche Luisanna Messeri (la più artusiana delle cuoche italiane), Natalia Cattelani (nostra signora delle torte), Fabrizia Ventura (la cuoca-archeologa che ha appena pubblicato Gustum Garum, ricette che riutilizzano la mitica salsa di pesce dei romani), e di cui diventano ambasciatrici le tante cuoche itineranti che vanno di casa in casa a cucinare.
Ci sono poi i cuochi che cercano di declinare questa esigenza di autentica semplicità nel loro locale. Uno dei più popolari è sicuramente Sergio Barzetti che ha fatto a Malnate (Varese), con «Cucina Barzetti», un’operazione di recupero della tradizione lombarda e del risotto in particolare (lo propone anche alla Stazione centrale di Milano come street food), o Peppe Guida (Antica Osteria Nonna Rosa di Vico Equense), che ha fatto evolvere la rosticceria di famiglia e oggi è con Giorgione interprete di questa cucina, più che à la carte, al cartoccio.
Con buona pace dei gastrofighetti che non la capiscono perché, come diceva Jean Anthelm Brillat-Savarin (Fisiologia del gusto, la Bibbia della cultura gastronomica), la qualità più indispensabile di un cuoco è l’exactitude (un misto tra attitudine e precisione), ma dovrebbe essere anche quella di chi mangia. Sovente i leoni da tastiera si nutrono solo del loro narcisismo.
