La città proibita, Gabriele Mainetti non ha dimenticato come sorprendere - Recensione
Il regista del magnifico Lo chiamavano Jeeg Robot e del controverso Freaks out torna con un film audace, di quelli che raramente si vedono in Italia. Tra arti marziali, grandi combattimenti e storie d'amore e vendetta. E non delude
Dopo la meraviglia di Lo chiamavano Jeeg Robot (2015), quando sperimentò con successo il cinecomic all’italiana riempiendosi di David di Donatello, e il mezzo flop di Freaks out(2021), mega produzione su diversità e superpoteri in epoca nazista, Gabriele Mainetti lo rifà: osa. E dimostra di saper ancora sorprendere e fare buoni film.
La città proibita, dal 13 marzo al cinema distribuito da PiperFilm, è il felice ritorno del regista romano che, dopo le ossa malconce dall’ultimo film, percorre di nuovo strade insolite per il cinema italiano, tra combattimenti e arti marziali da scuola orientale e location e action da made in Hollywood. Pur non ripetendo le vette assolute di Lo chiamavano Jeeg Robot, La città proibita convince.
Yaxi Liu nel film "La città proibita" (Foto: Andrea Pirrello)
Arti marziali e sentimenti sotto il cielo di Roma
Tra un’amatriciana e una zuppa di noodles, La città proibita è un film di arti marziali a… Roma!
Mainetti, che ha scritto la sceneggiatura insieme a Stefano Bises e Davide Serino, stupisce, piacevolmente. Tutto si apre nella Cina della politica del figlio unico, dove facciamo conoscenza con la nostra protagonista Mei, da bambina. Ed eccola poi adulta (interpretata da Yaxi Liu) ed esperta di kung-fu, nel ventre sporco e sotterraneo di un giro di prostituzione governato da boss cinesi.
Quando si apre il primo letale combattimento, a suon di pugni dritti, dorsi di mano a parare i colpi, calci frontali, la lotta travasa nell’ampia cucina di un ristorante cinese per fuoriuscire in strada e scoprire di essere… a Roma, appunto! Un inizio fenomenale per il terzo film del regista 48enne romano. È da applausi il travisamento: sentirsi in Cina e scoprire di essere invece sotto il cielo capitolino.
Mei, determinata cinese a Roma alla ricerca della sorella maggiore, nella sua disperata missione si imbatterà in Marcello (Enrico Borello), che insieme alla madre Lorena (Sabrina Ferilli) porta avanti la trattoria di famiglia, di verace cucina romana, tra i debiti e l’assenza ingombrante del padre (Luca Zingaretti), sotto l’ala protettrice ambigua del boss locale Annibale (Marco Giallini).
Una storia di vendetta e di amore che, pur mixando tanti troppi ingredienti, riesce a portare a segno il colpo giusto. Un menu italo-cinese che riempie abbondantemente ma non rimane sullo stomaco.
Enrico Borello e Marco Giallini nel film "La città proibita" (Foto: Andrea Pirrello)
Combattimenti da Colosso d’Oriente
Sono diverse le citazioni palesi e piacevoli che attraversano La città proibita. Quando Marcello gira in vespa di notte per far conoscere Roma a Mei c’è un po’ di Vacanze romane e un po’ de La dolce vita, ma invece di immergersi illecitamente dentro la Fontana di Trevi, i due si avventurano nel Teatro di Marcello.
«Roma è piena di chiese, sampietrini e… di stronzi», spiega Marcello a Mei, in versione guida turistica, raggiunto da rombi di clacson in vespa.
Gli appassionati di combattimenti e arti marziali gioiranno per la presenza di scene di lotta mirabolanti, che raramente animano così frequentemente e perfettamente i film italiani. In location tutte insolite e affascinanti.
Ecco prima Mei contro uno sciame di scagnozzi sulle scale che portano al bordello e al ristorante “La città proibita”. Poi la contesa sfocia in cucina, tra braccia grattugiate, teste di maiale, soffritti bollenti sparati in viso. Iconica!
Al mercato coperto, ecco un’altra scena di combattimento da ricordare, contro i due tirapiedi barbuti, Cip e Ciop, presi a pesci in faccia. E poi, il combattimento madre, con Mei in seducente abito rosso, che lascia svelata una gamba, contro l’orgia di sgherri di Mr. Wang (Chunyu Shanshan). Fino al duello tutto cinese dopo il concerto. Ce n’è per tutti i gusti.
Sabrina Ferilli e Gabriele Mainetti sul set de "La città proibita" (Foto: Andrea Pirrello)
Mei è davvero un’artista marziale
Mei, in pantaloni di tuta giallo-arancio con banda rossa, sembra una novella Black Mamba diKill Billalla ricerca di verità e vendetta. La interpreta Yaxi Liu, stunt di Liu Yifei nel live-action di Mulan, che Mainetti ha scovato quasi per caso. Era pronto a partire per la Cina, convinto che la sua protagonista l’avrebbe trovata solo nelle scuole di kung-fu, perché Mei doveva essere un’artista marziale. Poi un suo collaboratore gli ha inviato un reel di Instagram di Yaxi Liu, zeppo di calci e pugni perfetti. «Movimenti che non si improvvisano, che appartengono solo a chi si allena fin dall’infanzia. Era lei», racconta Mainetti nelle note stampa.
Perfetta la scelta del cast attorno a lei. Enrico Borello calza a pennello, con la sua aria buona e un po’ disarmante, faccia non abusata e troppo vista al cinema e per questo da scoprire con ancor più entusiasmo. «Enrico l’avevo già scelto, dopo averlo visto in Settembre di Giulia Steigerwalt», ha detto Mainetti. «I suoi occhi ampi, l’andatura dinoccolata, e quella sottile presenza che riusciva a esprimere nel suo rapporto con il femminile, mi dicevano che quello poteva essere Marcello».
E poi c’è la Sabrinona nazionale, mitica Ferilli, che a ogni sua piccola battuta lascia il segno con la sua simpatia giocosa. Marco Giallini è perfetto come “boss de’ noantri”, un po’ temibile, un po’ ciancioso. Peccato che il suo problema alle corde vocali renda sempre più difficoltoso capire cosa dica.
Yaxi Liu ed Enrico Borello nel film "La città proibita" (Foto: Andrea Pirrello)
Una sceneggiatura che fa anche ridere
Tra morti ammazzati, tavoli schiantati e vetrate in mille pezzi, cantine ricolme di migranti sfruttati e rapper di seconda generazione, La città proibita parla anche dell’Italia di oggi, di tensioni razziali ma anche di accoglienza.
Si appoggia a una colonna sonora che è tutta da cantare, da La canzone dell'amore perduto di Fabrizio De André aE se domani di Mina.
La sceneggiatura, che parla romanesco e cinese, raramente perde ritmo e trova anche svolte divertenti, spesso in bocca a Ferilli. «500 cravatte, ma me spieghi un omo che ce deve fa’ con 500 cravatte?».
Dopo essersi distinto come voce nuova del nostro cinema con Lo chiamavano Jeeg Robot, esordio alla regia folgorante, da sette David di Donatello, Mainetti si era impantanato in Freaks out, colossal poco avvincente che aveva diviso la critica e aveva sforato largamente il budget produttivo preventivato, andando a costare circa 13 milioni di euro (incassandone circa 3 in Italia).
«Faccio quello che posso, nel modo migliore che posso», c’è scritto sul cartello di uno dei migranti sotto il giogo di Annibale ne La città proibita. Mainetti ha fatto quello che può, nel modo migliore che poteva. E questa volta non delude.