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Nino Manfredi (Ansa)
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Nino Manfredi, 100 anni e 100 volti raccontati dal figlio Luca: «È stato il più americano di tutti»

Per il centenario della nascita escono un libro e un documentario, in cui il secondogenito del grande attore ripercorre le qualità dell'artista, certosino nella preparazione dei suoi personaggi, e le imperfezioni dell'uomo, padre assente «con tante debolezze, fragilità e paure». Le sue parole in questa accorata intervista

Nino Manfredi «era un po' come il pane casareccio della sua terra ciociara: compatto e saporito fuori, ma con tanti 'buchi' nascosti al suo interno». Così lo descrive il figlio Luca Manfredi in un passo del suo libro Un friccico ner core - I 100 volti di mio padre Nino (editore Rai Libri), appena uscito per celebrare i centro anni della nascita di Nino, un ritratto dell'artista dalle «mille qualità» ma anche dell'uomo «con le tante debolezze, fragilità e paure». Attore straordinario, ma padre imperfetto: «È stato un grandissimo artista, ma la sua arte lo ha sottratto alla famiglia, restituendomi un padre assente, che si incaponiva perché mangiassi le odiate lumache che avevo nel piatto, senza prendersi mai la briga di venire ad assistere a una mia gara di canoa o a una recita scolastica».

Nino Manfredi nasceva il 22 marzo 1921 a Castro dei Volsci, in Ciociaria, e nella lunga carriera di attore, capace di esprimere infinitesimali sfumature in occhi intensi e mimiche così naturali, seppur accuratamente studiate, ci ha regalato tanti personaggi grondanti sincerità e umanità profonda, dal barbiere romantico di Straziami ma di baci saziami (1968) all'ingenuo e commovente Geppetto deLe avventure di Pinocchio (1972), dall'emigrato tenace dall'accento ciocio-romano di Pane e cioccolata(1974), fino al genitore anziano e problematico di Grazie di tutto (1997), uno degli ultimi ruoli interpretati (prima della morte avvenuta il 4 giugno 2004), che proprio il figlio Luca, regista e sceneggiatore, gli aveva cucito addosso. Tanta comicità di registri diversi, ora bonaria, ora ironica, finanche tagliente, ma anche corde drammatiche.

Per il centenario della nascita di Nino Manfredi esce anche il documentario Uno, nessuno, cento Ninoin onda stasera (22 marzo) alle 21.15 su Sky Arte (canali 120 e 400) e in streaming su Now e in prima serata su Rai 2. Scritto e diretto sempre dal figlio Luca, secondogenito del matrimonio tra Nino e la modella Erminia Ferrari oggi 89enne, è ricco di inedite testimonianze sul percorso di vita di Nino Manfredi raccontato direttamente dalla sua famiglia e anche da una lunga intervista rilasciata a Luca pochi anni prima della sua scomparsa. E poi ci sono testimonianze di amici, registi e colleghi: Elio Germano, Edoardo Leo, Massimo Ghini, Nancy Brilli, Enrico Brignano, Johnny Dorelli, Walter Veltroni, Massimo Wertmuller, Lino Banfi.

Screnshot del doc "Uno, nessuno, cento Nino"

Ci facciamo raccontare meglio il libro, il documentario e, soprattutto, Nino Manfredi, dallo stesso figlio Luca.

Perché si intitola Un friccico ner core il libro che ha scritto su suo padre?
«Un friccico ner core è un frammento di Tanto pe' canta', la famosa canzone scritta da Ettore Pretolini nel 1932, che mio padre portò al Festival di Sanremo nel 1970 come cantante ospite riscuotendo un grande successo. Tra l'altro credo che fosse la prima volta che un ospite andasse lì a cantare. Mio padre mi raccontò che lo invitarono a Sanremo e lui chiese "che devo veni' a fa' a Sanremo?!", gli risposero "magari vieni a intrattenere il pubblico con una barzelletta", e lui replicò "No no, vengo se mi fate cantare", e quindi in qualche modo li ricattò. Decise di portare questa bellissima canzone di Petrolini, che è solo apparentemente allegra. Con la frase "me sento un friccico ner core" Petrolini alludeva non solo a questo primo amore un po' bugiardo, ma velatamente anche al suo problema cardiaco, perché scrisse il testo mentre era costretto a letto da una grave angina pectoris che lo portò ad abbandonare le scene nel '35 e quindi alla morte l'anno successivo. Ho scelto il titolo Un friccico ner core perché, un po' come nel caso di Petrolini, racconta i miei diversi stati d'animo provati nel rapporto con mio padre: c'è un sentimento di grande affetto, c'è ammirazione per la sua arte, ma c'è anche il dispiacere per le frequenti assenze come genitore, perché lui a casa c'è stato sempre pochissimo. Questo racconto è una specie di diario di viaggio, molto personale, del mio non sempre facile confronto con lui, ma anche un ritratto affettuoso della sua complessa personalità di uomo e di artista. Se penso per esempio a Geppetto e Pinocchio, mi viene da dire che questo è l'abbecedario del nostro rapporto e anche del nostro non rapporto, una raccolta di ricordi intimi e di aneddoti curiosi, spesso molto divertenti ma qualche volta anche dolorosi, perché mio padre ha dedicato tutta la sua vita al suo lavoro, che amava tantissimo, più di ogni altra cosa. Tutto il resto veniva dopo. Sicuramente il meglio di sé lo ha dato sulle scene e non a casa come genitore».

Essere figli d'arte può essere tormentoso…
«Alcuni pensano che essere figli d'arte sia un vantaggio: io penso che lo sia per la possibilità di fare esperienza quando si è agli inizi, ma poi bisogna camminare da soli e faticare il doppio perché l'inevitabile confronto con un grande padre come lui rischia di schiacciarti se non sei abbastanza forte e strutturato da sopportarne il peso. Conosco molti figli di attori famosi rimasti schiacciati dalla figura del padre. Ho scritto questo libro per chiudere un cerchio che era rimasto aperto tra me e lui, e per mettere a posto alcune cose dentro di me: è stata una sorta di seduta autopsicoanalitica. Inoltre mi è sembrato bello e doveroso raccontare Nino, ora che cade il suo centenario, raccontandolo per come l'ho vissuto io, senza fare sconti, da figlio che ha cercato un padre complice e amico e non sempre l'ha trovato, ma anche da regista che ha lavorato spesso con lui e l'ha ammirato moltissimo come attore e come artista».

Sul finale, però, avete un po' recuperato il vostro rapporto.
«Sì, anche un po' prima. A un certo punto io avevo deciso di seguire le orme di mio zio, che era un primario oncologo: essendo io molto preciso e meticoloso, mio zio insisteva perché facessi il chirurgo come lui. Mio padre si sentì molto sollevato, disse: "a Luca ci pensa Dante, meno male". Arrivato al quarto anno di Medicina, però, al momento di fare un po' di esperienza, quando entrai in sala operatoria e mio zio col bisturi aprì la gola a una donna, mi dovettero portare fuori a braccio. Capii che non avevo scelto la strada giusta per il mio carattere. Tornato a casa con grande angoscia lo raccontai a mio padre, dicendogli: "ho deciso di abbandonare gli studi di Medicina"; mio padre la prese molto male, fu molto duro, mi disse: "se sbagli un'altra volta la vita non ti darà una seconda occasione e finirai per essere un fallito". Avevo 22 anni, replicai che avevo anche altre passioni e mi assumevo la responsabilità della scelta. Siccome mi piaceva la fotografia, che coltivavo già da qualche anno, sono andato a lavorare come assistente in uno studio che faceva foto per le pubblicità. Da lì sono rimasto abbastanza affascinato dal mondo della pubblicità, mi sono iscritto allo IED e diplomato come copywriter (che è lo sceneggiatore della pubblicità): questo, incredibilmente, ci fece ritrovare. Mio padre infatti era diventato testimonial della Lavazza; non gradiva però gli spunti che gli mandava l'agenzia di Torino, che non erano molto aderenti al suo tipo di umorismo. Allora un giorno venne da me e mi disse "senti, visto che adesso sei un copywriter, tu che mi conosci meglio, perché non scrivi qualche spunto più adatto al mio tipo di comicità e lo proponiamo all'agenzia?". E così feci, mandai tre proposte che furono ben accolte. Da lì iniziò una lunghissima collaborazione tra me e lui che ha dato come frutto più di 100 spot pubblicitari che io scrivevo e dirigevo. Questo 100 ricorre anche nella pubblicità».

Screnshot del doc "Uno, nessuno, cento Nino"

E com'è stato trovarvi, almeno a livello professionale?
«Abbiamo avuto modo di frequentarci di più. Dopo quell'esperienza della pubblicità poi abbiamo fatto anche una serie televisiva che era coproduzione Italia-Francia, poi film per il cinema, poi altre serie televisive, film per la televisione. Per forza di cose abbiamo iniziato a conoscerci e a frequentarci di più. Non sono di certo mancati gli scontri».

Ce ne racconti uno…
«Racconto un aneddoto che la dice lunga. Eravamo in Francia, a Tolosa, a girare Un commissario a Roma: era una coproduzione tra Rai e televisione francese, per curiosi motivi di coproduzione il commissariato di San Vitale di Roma era ricostruito in teatro in Francia, c'erano comparse francesi vestite da poliziotti italiani. Quella mattina dovevamo girare una scena che lo riguardava come commissario; la sera prima in albergo mio padre bussa alla porta della mia camera e mi dice che la scena che dovevamo girare l'indomani a suo avviso non funzionava. A me sembrava funzionasse, gliel'ho detto, comunque l'ho riscritta completamente sotto sua dettatura; una volta finito il lavoro, era tardissimo, l'abbiamo riletta e gli ho detto: "Guarda, papà, se devo essere sincero mi piaceva più prima, ma se tu sei convinto facciamola così". Il giorno dopo siamo andati sul set, abbiamo iniziato a provare la scena con Giorgio Girabassi, che all'epoca era esordiente e nella serie faceva un ispettore suo assistente, e la scena non montava, come si dice in gergo. A un certo punto mio padre ha interrotto la prova e davanti a tutta la troupe ha detto: "Ma chi l'ha scritta 'sta stronzata?". Io l'ho guardato con grande stupore e gli ho detto: "Ti ricordo che ieri sera alle 11 hai bussato in camera mia e me l'hai fatta riscrivere come la volevi tu". Lui anziché ammettere il suo errore - perché lui mai ammetteva di avere sbagliato - ha detto davanti a tutti: "Ma che ca**o dici, sono 40 anni che faccio questo mestiere, mi vuoi insegnare a scrivere una scena?!". Io lì gli sono quasi saltato addosso, sono stato placcato al volo da tre macchinisti che mi hanno portato fuori dal teatro. Poi le riprese si sono interrotte, non abbiamo più girato quel giorno. Quella stessa sera per la prima volta gli ho scritto una lettera, che gli ho infilato sotto la porta della sua stanza: per la prima volta mi sono aperto e gli ho detto tutto quello che pensavo di noi, che il nostro rapporto era sempre stato molto superficiale, che non era mai entrato in profondità, che lui non conosceva me e io forse non conoscevo lui. Mio padre ha sempre fatto finto di non averla letta quella lettera: lo so perché poi quella stessa notte mia mamma mi ha telefonato dall'Italia perché lui, anziché chiamare me, ha chiamato lei. E lei mi disse: "Ma cosa hai scritto a tuo padre? Perché mi ha chiamato amareggiato dicendo che sei stato molto duro con lui". Io ho ribattuto: "No, non sono stato duro, ho semplicemente detto la verità". Il giorno dopo, quando siamo tornati sul set a girare, per mio padre era come se non fosse successo niente. Mi ha accolto sul set dicendo: "Ciao Luchino, buongiorno, che facciamo oggi?". Ha rimosso la possibilità che aveva, finalmente, di avere con me un rapporto più vero, più sincero».

Il titolo che ha scelto per il documentario invece è Uno, nessuno, cento Nino.
«È un titolo pirandelliano che allude ironicamente ai cento volti di Nino, uomo e artista complesso. Ai cento personaggi dei suoi film (perché Nino ha fatto circa cento film) e ai cento anni che avrebbe compiuto adesso. È un documentario che ha un punto di vista molto particolare perché è su Nino Manfredi attore, sì, ma soprattutto uomo, raccontato da me, dalla sua famiglia e dagli amici in un lungo viaggio nel suo percorso artistico e privato, impreziosito dalla sua testimonianza diretta girata da me 20 anni fa in occasione dei suoi 80 anni. Quando compì 80 anni girai un documentario per il Centro Sperimentale di Cinematografia che però è rimasto sempre a uso didattico degli allievi del Centro. Contiene del materiale preziosissimo: lui che per la prima volta mi racconta tutta la sua vita ed è accompagnato in questo viaggio della memoria da Massimo Ghini che mi fa da intervistatore».

A proposto dei tanti film girati da Nino Manfredi, qual è il suo preferito?
«Quello che porto più nel cuore è Pane e cioccolata: il personaggio di Giovanni Garofoli, questo migrante che va in Svizzera nel tentativo di fare il cameriere e di integrarsi con gli svizzeri, tanto da farsi biondo, porta dietro il dna della nostra famiglia, del nonno di mio padre che era migrato per 32 anni in America per fare il minatore. È una tematica che Nino ha sentito molto e che, secondo me, ha reso al meglio. Poi ci sono altri film bellissimi come C'eravamo tanto amati, oppure Brutti, sporchi e cattivi in cui fa un personaggio molto sgradevole. Mio padre è riuscito a far convivere nei suoi personaggi sempre una doppia anima, quella più lieve e ironica, che ti strappava un sorriso, e poi quella più malinconica, a volte drammatica, come nel caso di Giacinto di Brutti, sporchi e cattivi, che ti faceva riflettere. Sempre con un fondo di dignità e di onestà che era priva di quel cinismo che spesso caratterizzava i personaggi di Sordi o di Gassman. Secondo me Nino è stato l'interprete dell'italiano medio nel senso migliore di questo termine».

Screnshot del doc "Uno, nessuno, cento Nino"

Che rapporto aveva con gli altri grandi interpreti della commedia all'italiana, Sordi, Gassman e Tognazzi?
«Affettivamente era molto legato a Vittorio Gassman e a Marcello Mastroianni. Con Vittorio aveva fatto l'Accademia insieme; lui ne era uscito prima, ma era stato poi il primo a dargli fiducia: Vittorio andò in Accademia a scegliersi un po' di attori perché aveva messo su una compagnia con la Maltagliati e scelse anche Nino. Mio padre raccontava spesso questo episodio: alla prima lettura del copione di gruppo, preso dall'emozione, non riuscì a dire le sue battute e la Maltagliati disse "ma chi m'hai portato? Un attore che non parla?". Vittorio le disse "no guarda, è stato bloccato dall'emozione, ma Nino parla e quando parla si fa ascoltare". Infatti il giorno dopo, alla seconda prova, se l'è cavata bene. Quindi lui era molto legato e riconoscente a Vittorio. Affettivamente era molto legato a Marcello, era molto amico, è stato testimone di nozze insieme a Paolo Panelli, altro compagno di Accademia. Infatti nel documentario c'è una chicca: un 8 mm girato da Elio Pandolfi del matrimonio di mio padre e mia madre dove si vedono Mastroianni e Panelli. Con Sordi e Tognazzi aveva rapporti più sporadici, di tipo più professionale. Mio padre non è stato mai un gran frequentatore del mondo del cinema, al di fuori del set frequentava persone semplici. Il migliore amico di mio padre era un medico condotto di un paesino sul Lago di Bolsena, quello che un po' mi ha fatto da padre supplente, zio Domenico. Ma mio padre non era geloso di lui: al di là della sua fortissima generosità e disponibilità, perché era un uomo che non aveva figli, in qualche modo mio padre gli era riconoscente perché faceva con me quello che lui non poteva fare. Le vacanze le passavo con lui, i viaggi all'estero, lo sport, giocare a tennis, tutte cose che con papà non ho potuto fare. Da adolescente facevo canoa agonistica: mio padre non è mai venuto a vedere una mia gara. Invidiavo moltissimo un mio compagno di squadra che aveva il padre sempre appresso, lo massaggiava, lo scaldava, lo consigliava».

Suo padre dava spesso vita a personaggi leggeri, che facevano sorridere, ma dietro c'era una grande preparazione, anche in virtù degli insegnamenti di Orazio Costa all'Accademia.
«Definirei mio padre il più americano di tutti gli attori della sua generazione, perché tutto era frutto di uno studio profondo, quasi maniacale, fatto a tavolino, come fanno gli attori americani. Nulla veniva dall'improvvisazione. Questo per merito della grande scuola di Orazio Costa che gli diceva che prima della parola bisogna imparare a esprimersi con il corpo. Gli faceva fare esercizi straordinari, gli faceva fare il cielo, la pioggia, il vento, la formica. Gli diceva: "Se devi fare un personaggio nevrotico, devi ispirarti ai movimenti di una formica, che si muove avanti e indietro come se fosse un po' matta. Se devi fare un personaggio diffidente e sornione, studia le movenze di un gatto". Costa diceva che tutto viene dall'osservazione della natura. Per mio padre è stata una scuola straordinaria. Era un artigiano della recitazione. Infatti Dino Risi lo definiva "l'orologiaio" per la precisione con cui costruiva i suoi personaggi, sempre alla ricerca di un tic, di una caratterizzazione fisica o lessicale: come ha fatto per interpretare Geppetto. Quando Comencini lo convocò per proporgli il personaggio, mio padre rimase sorpreso perché era ancora relativamente giovane, aveva 50 anni, e gli chiese "Maestro, come mai sceglie me per interpretare questo vecchio falegname quando avrebbe altri attori più adatti come età anche bravi?" e Comencini gli fece questo complimento bellissimo: "Perché lei, Manfredi, è l'unico attore italiano capace di parlare con un pezzo di legno". Infatti per metà film mio padre parla con un pezzo di legno. Carico di questa responsabilità, mio padre andò ai Giardini degli Aranci, che è un giardino pubblico che stava di fronte casa, per studiarsi gli anziani e assimilare le movenze. Seduto su una panchina iniziò a osservare un nonno che stava leggendo il giornale e aveva con sé una nipotina che parlava con il suo bambolotto. Lì ebbe la folgorazione: non doveva interpretare Geppetto come un vecchio ma con l'innocenza e il candore di una bambina che parla con il suo bambolotto. Per fare questo si fece dare dalla costumista le scarpe di tre numeri più grandi: voleva trascinare le scarpe come fanno i bambini quando si mettono quelle dei genitori. Questo la dice lunga sul suo modo approfondito di studiare i personaggi».

Secondo lei Nino è stato il più americano di tutti, ma aveva il cruccio di non parlare l'inglese…
«Sì, è stato il suo grande cruccio. Ce l'aveva molto con sua madre, mia nonna Antonia, perché era stata quasi dieci anni in America al seguito del padre minatore, sapeva l'inglese ma non gliel'ha insegnato. Accadde che sua nonna Caterina perse in America il primo figlio, di peritonite, e non voleva più restare lì, la considerava una terra maledetta, quindi prese la sua figlia femmina, superstite, e se la portò in Italia lasciando lì il marito Giovanni da solo. Arrivati in Italia, siccome nonna Antonia, la mamma di mio padre, era adolescente e per l'epoca in età di matrimonio, fu data in sposa a uno che neanche conosceva, brigadiere di polizia del paese vicino, nonno Romeo, il papà di mio padre. Mia nonna, che era stata in America quasi dieci anni e parlava alla perfezione l'inglese, si vergognava a parlarlo perché per lei era quasi un segno di infamia, l'avrebbe denunciata come migrante. Quindi si rifiutava di parlare inglese con i figli e mio padre gliel'ha sempre rimproverato. Dopo il grande successo in America di Pane e cioccolata, ebbe molte proposte di registi importanti come Billy Wilder e David Mamet. Mamet venne due volte a casa nostra per convincerlo a girare Le cose cambiano ma non ci riuscì, Nino gli disse di non poter recitare imparando a memoria una lingua che non conosceva. Wilder gli propose di fare un film con il gigantesco Jack Lemmon; mio padre gli disse: "Se lei fa recitare Jack Lemmon in italiano, io recito in inglese". Ovviamente fu una provocazione. Disse: "Non posso recitare accanto a un mostro sacro con l'handicap". È stato il suo grande rammarico perché avrebbe potuto essere un attore di livello internazionale».

Come regista cosa sente di aver ereditato di Nino nel suo lavoro?
«Ho portato un suo grande insegnamento, quello dell'approccio professionale, della grande serietà nel preparare il proprio lavoro. Piuttosto faccio notte ma arrivo sul set la mattina con le idee chiare. Ho imparato che tutto va studiato e preparato molto bene prima. Per i film faccio con gli attori un po' quello che si fa a teatro: li metto tutti seduti attorno al tavolo e leggiamo il copione insieme per provare i personaggi, le battute, trovare le sfumature lessicali».

C'è qualcosa che rimpiange di non aver detto a suo padre?
«Quello che rimpiango e che ho tentato di dirgli ma non ha sortito grandi risultati è "parliamoci di più, approfondiamo la nostra conoscenza". Lui proprio non riusciva. Questi grandi artisti spesso sono capaci di intrattenere platee con migliaia di persone ma sono incapaci di sostenere un rapporto a due, anche per timidezza, perché spesso sono dei timidi. Io sono un timido e mio padre lo era altrettanto. Era un timido che ha curato la sua timidezza attraverso lo studio della recitazione. È stata una terapia per lui. Io, ad esempio, ho lavorato molto con Gigi Proietti: non si direbbe mai che fosse un timido, perché era un grande affabulatore, aveva una forte presenza sul palcoscenico. Eppure sono stato spesso a cena io e lui e nel rapporto a due era timidissimo, quasi non ti guardava negli occhi. La timidezza in fondo è sintomo di una grande sensibilità, quella sensibilità che poi ti permette di essere grande sul palcoscenico».

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Simona Santoni

Giornalista marchigiana, da oltre un decennio a Milano, dal 2005 collaboro per Panorama.it, oltre che per altri siti di testate Mondadori. Appassionata di cinema, il mio ordine del giorno sono recensioni, trailer, anteprime e festival cinematografici.

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