Avatar: La via dell'acqua, non è più meraviglia - La recensione
(20th Century Studios)
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Avatar: La via dell'acqua, non è più meraviglia - La recensione

James Cameron costruisce ancora immagini da incanto nel magnifico nuovo mondo sottomarino. Ma ricade in solite battaglie, soliti cattivi, in un'ode sperticata alla famiglia. Il tripudio visivo forse oggi non basta

Frastornati, affaticati, con l’incanto del mondo dell’acqua di Pandora ancora negli occhi, ma anche con la stanchezza per 3 ore e 12 minuti di occhialini 3D e battaglie e cattivi così già visti. Dall'attesissimo Avatar: La via dell’acqua (in sala dal 14 dicembre) non si esce con la stessa meraviglia stupefatta di Avatar. Se a livello visivo James Cameron non si smentisce e sa ordire magia, a livello narrativo si ricalca. E cade nell'ode sperticata alla famiglia. Tredici anni dopo Avatar, il film dal maggior incasso di tutti i tempi, il tripudio visivo forse non basta. Speriamo però che basti per riportare il pubblico al cinema.

I soliti cattivi, la solita famiglia

Siamo ancora su Pandora, la luna che orbita attorno a un gigantesco pianeta gassoso chiamato Polifemo nel sistema solare di Alpha Centauri-A. Nel frattempo l’ex marine paraplegico Jake Sully (sempre interpretato da Sam Worthington) è diventato a tutti gli effetti un Na’vi, umanoide di pelle blu, e ha messo su famiglia insieme a Neytiri (Zoe Saldaña): ha tre figlioletti di sangue e ha adottato Kiri, figlia biologica dell’avatar della dottoressa Grace Augustine deceduta nel primo film (madre e figlia entrambe interpretate da sua maestà Sigourney Weaver). Tutti di pelle blu. Con loro al seguito c’è spesso Spider (Jack Champion), un ragazzino umano che era stato abbandonato su Pandora da piccolissimo, con cui i giovani Sully hanno un legame speciale.
Ma ovviamente il pericolo incombe. «Le foreste di Pandora nascondono tanti pericoli ma il più grande pericolo di Pandora è che puoi amarla troppo», sussurra Jake.

Senza tante frasi ad effetto, il pericolo, anche in Avatar 2, è sempre quello: l’uomo. L’uomo che irrompe, l’uomo che invade, l’uomo che devasta ciecamente. E l’uomo, ancora una volta, ha la sua crudeltà sterminatrice nel colonnello Miles Quaritch (Stephen Lang, altro ritorno), o meglio, nel suo avatar. E ancora e ancora e ancora è una battaglia di fughe, minacce, distruzioni e corpo a corpo tra lui e Jake. Jake con solo un obiettivo in testa: proteggere la sua famiglia. Che i Sully siano tutti uniti! E si badi bene, la famiglia per Jake non va oltre i suoi quattro figlioletti blu. Spider che cade in mani nemiche? Poco importa. Il solo obiettivo di Miles? Catturare Jake. Unidirezionale. Unplot alquanto tradizionalista ed elementare (assai diverso da essenziale), che non è salvato dai guizzi dei figli sul finale (i bravi Jamie Flatters e Britain Dalton).

Un altro film uscito da poco al cinema, Tori e Lokita dei sempre arricchenti fratelli Dardenne, ci ha appena mostrato come si può parlare di famiglia in modo emozionante e nuovo e nella più nobile dell’accezione. Senza alcuno sfoggio tecnologico, in modo essenziale.

Immagine del film "Avatar: La via dell'acqua" (Foto: 20th Century Studios)

La giova visiva negli abissi marini

Dopo la primissima parte di film che ci fa chiedere se ci fosse davvero bisogno di un Avatar 2, finalmente arriva l’incanto. Jake & family lasciano la foresta e il loro clan degli Omatikaya, fuggono e chiedono ospitalità ai clan del mare, ai Metkayina, guidati da Ronal (la new entry Kate Winslet che torna a lavorare con Cameron dopo Titanic) e Tonowari (Cliff Curtis). Lì Jake invoca l’Uturu, una tradizione Na’vi secondo cui bisogna garantire asilo a qualsiasi rifugiato in cerca di protezione. Accogliendo con riluttanza i loro ospiti, Ronal e Tonowari chiedono ai loro figli Tsireya (Bailey Bass) e Aonung (Filip Geljo) di aiutare i giovani Sully ad adattarsi alle usanze e alle tradizioni del clan acquatico.

Finalmente in viso si schiude un sorriso estasiato: Cameron fa quello che gli riesce meglio, ideare nuovi mondi prodigiosi. I Metkayina, adattatisi all’ambiente marino, hanno una struttura fisica un po’ diversa dagli Omatikaya, pelle verde mare, code più strutturate anfibie, braccia più possenti e semi pinnate per nuotare. E il mare… ecco, sì, il mare. È dove vorremmo rimanere per tutto il film, in una natura misteriosa e lussureggiante da scoprire, lontani da conflitti che sanno di stantio. Verdi e blu in tutte le sfumature, brillii, flutti, danze sottomarine.

Immagine del film "Avatar: La via dell'acqua" (Foto: 20th Century Studios)

Tra le meravigliose creature acquatiche ci sono gli ilu, una specie di mammiferi vivaci e giocosi che Cameron descrive come «un incrocio tra una manta e un biplano, con il collo lungo di un plesiosauro e le alette degli aerei da combattimento europei». Una sorta di risposta agli ikran, i predatori dell’aria simili a draghi che avevamo visto nel primo Avatar. Poi c’è lo skimwing, più veloce e temibile, un anfibio usato come cavalcatura da guerriero. E ci sono i tulkun, una specie di creature senzienti simili a balene che possono raggiungere i 90 metri di lunghezza, spiritualmente legate alla cultura Na’vi. «La via dell’acqua non ha inizio e non ha fine. Il mare è la tua casa prima della tua nascita e dopo la tuA morte», la voce accompagna in una connessione mistica con l’elemento acqua.

Nella Baia degli antenati l’albero delle anime è un altro luogo in cui fermarsi a lungo, tra viticci luminosi color magenta e fronde che somigliano a laminarie esotiche (esaltati dalla Sala Energia del cinema Arcadia di Melzo, tra le migliori d'Europa).
Cameron qui è davvero a suo agio, da profondo conoscitore di abissi marini: nel 2012 ha effettuato un’immersione in solitaria nel punto più basso della Terra, impresa documentata nel film di National Geographic del 2014 James Cameron’s Deepsea Challenge.

«Le tecnologie utilizzate sono estremamente avanzate rispetto al primo film», ha spiegato Cameron, che anche di effetti visivi è maestro: nella sua abbacinante filmografia Terminator, Aliens – Scontro finale, The Abyss, Terminator 2 – Il giorno del giudizio, Titanic.

Immagine del film "Avatar: La via dell'acqua" (Foto: 20th Century Studios)

Per ricreare la gioia subacquea è stata costruita un’enorme vasca nei Manhattan Beach Studios, la sede di Lightstorm, la casa di produzione di Cameron e Jon Landau. Con una lunghezza di 36 metri, una larghezza di 18 e una profondità di 9, la gigantesca vasca conteneva più di 946.000 litri d’acqua ed è stata utilizzata come “Volume” (il nome con cui vengono chiamati i teatri di posa per la performance capture) sottomarino del film.

La performance capture di Avatar: La via dell’acqua ha avuto inizio a settembre del 2017 ed è andata avanti per circa 18 mesi: in quel periodo Cameron e il cast hanno lavorato a diverse scene di tutti e quattro i sequel. Dopo Avatar, infatti, Cameron ha scritto oltre 1500 pagine di appunti e snodi narrativi, trasformati poi in quattro film.

In attesa di Avatar 3, ma con meno ardore

Uno straordinario sforzo produttivo. Un’eccelsa e somma capacità tecnologica che restituisce immagini abbaglianti. Ma… possono controbilanciare uno sviluppo narrativo sapido, scontato e poco stratificato? In Avatar sì, l’effetto novità sapeva riempire oltre che gli occhi i cuori. Oggi probabilmente non basta. Né basta la commozione legata ai fratelli Sully.
Avatar 3 è previsto per il 2024. Lo aspetteremo con meno ardore.

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Simona Santoni

Giornalista marchigiana, da oltre un decennio a Milano, dal 2005 collaboro per Panorama.it, oltre che per altri siti di testate Mondadori. Appassionata di cinema, il mio ordine del giorno sono recensioni, trailer, anteprime e festival cinematografici.

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