Come si progetta uno spazio? Uno spazio di lavoro, in cui un team dovrà essere messo nelle condizioni di essere produttivo? Cosa è cambiato rispetto al periodo pre-pandemico? Come si converte un appartamento in un’agenzia di comunicazione?
Sono alcune delle domande alle quali ha risposto Greta Cevenini, architetto di ultima generazione che ha scelto la “difficile” Milano per “fare architettura”.
Dal 2017 ha un suo studio in Viale Padova, “Una zona croccante della città” così la definisce. Collabora con tantissimi brand nel mondo del design. Le sue sono consulenze “creative”. Lavora su tutto ciò che è immaginario e per farlo usa il supporto di allestimenti. Nel tempo “libero” progetta interni: “Il mondo del set design ha una velocità tale che mi permette di vedere e vivere tanti progetti diversi, tutti insieme. Questo mi porta a sperimentare in modo diverso la mia professione. Progettare interni è un lavoro più lento, che tiene tanto in conto le relazioni con i clienti”.
Milano. È così difficile da vivere da libera professionista?
«Ero una partita iva che faceva il dipendente. È un atteggiamento che provo a non avere con i miei collaboratori, oggi che finalmente ho uno studio tutto mio. Avevo iniziato a lavorare da casa, ma era difficile gestire il tutto. Quando sei un libero professionista il lavoro ingloba la tua vita, non hai orari e sembra di dover essere sempre disponibili. Non separare la vita personale da quella lavorativa era un qualcosa che a livello umorale mi stava stretto. Dovevo cambiare la gestione delle cose e nel 2019 ho trovato questo spazio su strada, un piccolo negozio che ho riconvertito a studio. Mi piaceva l’idea di avere una vetrina che mi mettesse quasi a contatto con la vita che scorreva là fuori. Era importante uscire la mattina, bere un caffè al bar e iniziare la giornata. Così come la sera chiudere la serranda e segnare dei confini utili».
Ecco le criticità del lavoro in modalità smart working.
«Non sono una fan di questo approccio al lavoro, ovviamente dipende dai casi e dal tipo di professione che uno fa. Lavorare in smart working a volte rallenta alcune procedure: quando non sono in studio comunicare con i collaboratori richiede più tempo. Anche a livello creativo per me è importante il confronto, parlarsi, vedere le cose insieme. Se uno fa un lavoro più individuale e non ha bisogno di alcun confronto magari funziona. Stare in movimento serve alla creatività».
Entriamo nel dettaglio del suo lavoro. Ha da poco concluso i lavori di ristrutturazione di uno studio creativo, nato in un classico appartamento della vecchia Milano, nel quartiere Paolo Sarpi.
«È la casa meneghina dello studio fondato da Benedetta Gambino nel 2020. Sono arrivata a questo progetto grazie ad una rete di conoscenze. È sempre il modo migliore. Tessere reti che permetteranno di raccogliere frutti. Inizialmente dovevano andare in un’altra zona di Milano, poi la scelta è ricaduta su Paolo Sarpi. Appena visto lo spazio, il feeling è stato immediato, non volevo fare la classica casetta milanese, era uno studio, un ufficio, serviva qualche tocco eccentrico. Mi è stata data totale libertà e credo che questo aiuti: affidarsi e fidarsi, nei limiti, ad un creativo, un consulente».
Ufficio, studio. Perché diventa una casa milanese? È cambiato il modo di progettare gli uffici?
«La connotazione degli ambienti aveva questi dettagli architettonici della vecchia Milano. Il pavimento con le cementine, bello ma lo abbiamo rivisto in una chiave diversa almeno nel primo corridoio, fa così la sua comparsa il pvc verde acido. Cercavo contrasti che andassero incontro a ciò che lo spazio sarebbe stato: uno studio creativo».
Nella parte di progettazione si è occupata anche degli arredi e della parte illuminotecnica?
«Ho seguito gli arredi, i colori, i materiali, abbiamo conservato l’involucro, la divisione degli spazi. Per la parte degli arredi abbiamo avuto una partnership con dei brand che si sono dimostrati felici di partecipare al progetto, vista la tipologia di spazi».
Funziona ancora lo scambio merce? Perché di quello stiamo parlando.
«Il mio lavoro da set designer è creare anche questo, creare delle connessioni con i brand che si scambiano le competenze, cercando di darsi visibilità reciproca. A certi brand serve avere una lettura diversa di quello che sono».
Ha raccontato Studio Pesca e il suo immaginario attraverso lo spazio.
«Parliamo di un collettivo di talenti che includono l’art director, la produzione contenuti, il graphic design, i social media, il web development. Il risultato doveva essere un luogo espositivo ma anche una cucina per organizzare show cooking, uno studio fotografico ma anche un ufficio. Un vero e proprio hub creativo. Da qui la scelta di inserire gli sgabelli minimal disegnati dall’architetto Sofia Albrigo, la plastica futuristica e pop della tenda che sostituisce la porta, le sedie Spaghetti Chair di Alias disegnate nel 1979 da Giandomenico Belotti, la cucina isola di Zerogloss, centro della convivialità di questo luogo, l’installazione floreale di Mariachiara Manelli, giovane flower designer che collabora con selezionate Farm lombarde».
Perché oggi in un ufficio c’è quasi sempre l’esigenza di avere una cucina?
«Post pandemia il lavoro si è fatto più flessibile, fluido. Magari non ti vedi tutti i giorni ma quando ti vedi devi farlo in sintonia con il resto del team e davanti ad un piatto di pasta da sempre nascono le migliori idee e si concludono i migliori affari. La qualità del lavoro e delle connessioni che si possono creare richiede che una stanza concepita come ufficio ceda il posto ad una cucina, ad uno spazio comune».
Progettiamo una casa.
«La mia visione parte da Milano, ci sono spazi irraggiungibili, rari e difficili da avere. Per gli spazi interni si cerca oggi più che mai di favorire la gente dedita allo smart working, che vorrebbe avere separati gli ambienti del vivere da quelli del lavoro. Non mangiare sullo stesso tavolo dove si lavora è qualcosa di importante. Le abitudini oggi sono cambiate».
In che senso?
«Giorni fa sono ho fatto un sopralluogo in una location all’interno di un palazzo storico. La borghesia di Milano. Camere grandissime e una cucina molto piccola e quasi sproporzionata. Oggi non funzionerebbe un progetto del genere. La gente vuole la cucina a vista, uno spazio conviviale in cui poter stare con gli amici. Una cucina così piccola separata dal resto della casa è oggi un cortocircuito».






Parliamo di responsabilità sociale nella progettazione. Come reagisce il mercato a questa nuova esigenza?
«Parliamo di coscienza, piuttosto! Ho un approccio minimale, faccio delle scelte oculate, cerco di rendere gli spazi funzionali, evitando ogni tipo di opulenza non necessaria. Le aziende fanno spesso ricerca per creare ricchezza con i materiali, cambiando un top in legno, con del marmo. Lo fanno per arrivare a certi mercati e certi Paesi. Lo capisco solo nell’ottica di una vendita e spesso conta solo quella».
Materie prime ecologiche e rinnovabili. È una bolla?
«Ho usato una tenda di plastica all’interno dello Studio Pesca anche per far capire che quel materiale non va demonizzato: è ecosostenibile, durevole e può essere riciclato. Il problema della plastica è nella gente che butta la bottiglietta nel mare. A volte è peggio sradicare montagne per prendere dei marmi, c’è una massiva richiesta di pietre. Tutto può essere attaccato. Per essere sostenibile occorre essere coscienti di quello che si produce. Quanti prodotti vengono “buttati fuori” ogni anno al Salone del Mobile? Abbiamo bisogno, semplicemente, di… un po’ meno!»
