People Need People
Nicola Conte, Davide Petrella / Schema Records
Musica

Nicola Conte: «People Need People è jazz per il corpo e per lo spirito»

L'album, composto dal musicista, produttore e dj di fama internazionale insieme al trombonista Gianluca Petrella, è un viaggio musicale tra jazz, afrobeat, hip hop ed elettronica, con un forte messaggio spirituale

A vent'anni dall'acclamato New Standards, Nicola Conte e Gianluca Petrella hanno unito di nuovo i loro talenti in un album a quattro mani, People Need People, pubblicato dalla Schema Records con il sostegno di Puglia Sounds. Lo scambio tra i due artisti avviene non solo nella scrittura musicale, ma anche nella ricerca. La passione per rarità viniliche, l'utilizzo di samples, suoni e strumenti vintage confluiscono in un disco in grado di comunicare l'entusiasmo della 'club culture' e, allo stesso tempo, di sollecitare interessi nella scena nu-soul/jazz. Concepito come un'esperienza creativa collettiva, che attinge alle prime influenze di Conte & Petrella, dal soul all'afro-jazz spirituale e alla ricerca sui suoni elettronici moderni, nu disco e hip-hop, gli undici brani dell'album presentano un nutrito ensemble cosmopolita di musicisti, tra cui Raashan Ahmad, Nduduzo Makhathini, Magnus Lindgren, Débo Ray, Bridgette Amofah e i giovani astri nascenti italiani Davide Shorty e Carolina Bubbico.

Nicola Conte, si può dire che People Need People, che spazia tra spiritual jazz, afrobeat, hip hop ed elettronica, sia l'album più eclettico della sua ampia discografia?

«Questo disco l'abbiamo pensato con Gianluca Petrella proprio per avere molte dimensioni. Quindi dentro ci sono quasi tutte le nostre influenze. Nel suo percorso, Gianluca si è avvicinato ad alcune tematiche che ho iniziato ad affrontare da tempo. É stato un processo spontaneo, nel quale abbiamo avvertito l'esigenza di ampliare il nostro spettro con una serie di ispirazioni che arrivano da correnti musicali diverse, però tutto si può ricondurre a uno scenario di musica afroamericana, di black music filtrata dalla nostra sensibilità di europei. Nel titolo volevamo esprimere che noi abbiamo necessità degli altri non per i nostri interessi o per i nostri fini: abbiamo necessità degli altri perché è l'unico modo per poter crescere insieme»

L'idea di fare un album insieme nasce per celebrare il ventennale del vostro precedente lavoro New Standards del 2001?
«In realtà l'album è stato concepito e registrato in gran parte prima della pandemia, così come il suo titolo: non c'è niente di direttamente collegato a ciò che sta accadendo adesso e questo credo che possa essere una forza del disco, che non nasce come una reazione a uno stato di cose. People need people è una specie di manifesto di musica di protesta, quindi con un taglio sociale e politico riflesso in una dimensione più poetica, che è quell'artista. Esprime il sentimento e l'esigenza di un afflato più umanistico, in una società che sta sempre più sradicando l'essere umano sia dalle sue radici storico-culturali che dalla sua dimensione più spirituale. É in atto da tempo un processo di sfruttamento di persone e di risorse, che non può portare a nulla di buono perché, nel momento in cui la società non riesce più ad esprimere una controcultura alternativa, non è neanche in grado di porre in essere delle azioni di riequilibrio rispetto a questo stato di cose»

Gli ultimi due album Shine a light e People need people sono accomunati da una forte componente spirituale. Quanto è importante e in che modo la musica può promuovere una maggiore consapevolezza spirituale degli ascoltatori?

«La musica può spingere ad andare più a fondo nell'esplorazione dell'individuo al suo interno e a renderlo consapevole di tutta una serie di tematiche. La musica trasmette vibrazioni ed emozioni che ci proiettano in una metadimensione dell'individuo, che è cosciente di non essere solo legato ad una esistenza materiale, ma a una dimensione estremamente vasta, sia nel tempo che nello spazio. Se la musica viene fruita in maniera consumistica e quindi i brani vengono ascoltati distrattamente solo per 30-40 secondi, tutto ciò non può avvenire. Ma se tu porti qualcuno ad ascoltare un album nella sua interezza, mentre si alternano composizioni che vanno oltre a determinate durate, in quel momento è come se la persona cominciasse a liberarsi da tutta una serie di condizionamenti e si ritrovasse una dimensione del tempo diversa. Partendo da questo è possibile attivare certi pensieri e certi processi mentali che portano chiunque a porsi delle domande e a cercare delle risposte: in questa ricerca e in questo cammino c'è una elevazione dello spirito umano»

Alla Blue Note Records, l'etichetta jazz più importante al mondo, Don Was sta facendo un grande lavoro con artisti che non sono esclusivamente jazz, come Robert Glasper, José James, Marcus Strickland e Derrick Hodge. Perché in Italia facciamo ancora fatica a contaminare il jazz con l'elettronica, l'hip hop e la black music?

«In Italia siamo ancora troppo legati a una cultura che non è più attuale e che ha portato nel corso del tempo a posizionare una musica di pura libertà di espressione e di creatività come il jazz lontano dalle persone, chiudendola in un alveo quasi accademico, dove l'eccellenza della performance e la complessità della musica solo valori superiori rispetto all'essenza della musica. Si tende, inoltre, ad allontanarsi il più possibile dalla cultura afroamericana, quasi rifiutandone uno dei suoi aspetti fondamentali, che è quello legato al ritmo»

Nell'ultimo album la componente ritmica gioca una parte fondamentale, come non accadeva forse da Jet Sounds Revisited del 2002. Forse il periodo che stiamo vivendo tutti ci spinge a cercare una musica che ci faccia muovere il corpo?
«Questa può essere una spiegazione. Io negli ultimi anni ho ripreso a seguire con molto interesse tutta una serie di scene, a fare più dj set e a calarmi di nuovo in questa dimensione per una mia esigenza personale. Ho avvertito l'esigenza di lasciare una parte del mio percorso legato al jazz per esplorare altre direzioni, che magari possono ricollegarsi a un mio passato non remoto. Voglio che la mia musica da un lato abbia sempre più queste caratteristiche di spiritualità, di sociale, di rivendicazione politica e che, dall'altro, riacquisti una fisicità, intesa come necessità di coinvolgimento complessivo della persona, quindi agire non solo sulla mente e sullo spirito, ma anche sulle vibrazioni del corpo»

É notoria la sua capacità di scoprire e valorizzare giovani artisti di talento. Com'è nata l'idea di coinvolgere Carolina Bubbico e Davide Shorty in People Need People?
«Perché entrambi hanno personalità e sono artisti pensanti, con influenze e un background molto ampio. Si sta affermando una nuova scena musicale molto interessante in Italia, per me e Gianluca era importante non solo attingere dai nostri amici sparsi per il mondo, ma cercare di coinvolgere tutti quelli che noi pensiamo siano quelli forti, quelli in gamba che hanno qualcosa da dire: Carolina e Davide erano perfetti per questo brano»

In Love & Revolution del 2011 troviamo tra gli ospiti due artisti del calibro di Gregory Porter e José James, che oggi sono star della nuova scena jazz internazionale. Come li ha scoperti?

«Cerco sempre di tenermi il più aggiornato possibile con delle ricerche, poi, naturalmente, ci sono i passaparola nei vari gruppi e nei vari cerchi artistici. Io avverto l'esigenza di inserire qualche nome nuovo in ogni album che faccio. Parlando con Gilles Peterson, lui mi ha detto che stava per uscire l'album di debutto di questo cantante americano con la sua etichetta. Josè era perfetto perché stavo cercando una voce maschile nera, un cantante jazz, ma che avesse anche una possibilità espressiva più ampia, così l'ho coinvolto per le registrazioni di Rituals. Per quanto riguarda Gregory Porter, è successo qualcosa di simile. Ero in studio con Josè James e Nila Porter, ho chiesto a lei se conoscesse un altro vocalist, avevo bisogno di una voce maschile più profonda, così lei mi ha suggerito un cantante di New York, che aveva appena pubblicato il suo album d'esordio. Non appena ho sentito il primo brano, l'abbiamo chiamato direttamente dallo studio, mi sono presentato e lui è venuto a Bari a registrare i brani»

Lei è un artista cosmopolita, che è molto apprezzato in Brasile e in Giappone. Che cosa la lega di più a questi due paesi, diversissimi tra di loro?

«Per me il Giappone è stato una seconda patria negli ultimi 15 anni, ho trascorso così tanto tempo là che non dico che mi sento cittadino giapponese, ma quasi. Ciò che mi affascina di più del Giappone è proprio la loro cultura e la loro dimensione spirituale. In Giappone l'essere umano è sempre rispettato da chiunque, in tutte le scale delle gerarchie sociali, inoltre l'aspetto religioso è ancora importante ed è una nazione che ama e che rispetta l'arte. Oggi non ci può essere alcun progresso nelle società slegato dall'arte e dalla cultura: è ciò che distingue una comunità proiettata verso il futuro. Per quanto riguarda il Brasile, ci sono stato molto meno, anche se è stato uno degli ultimi viaggi del primo lockdown. Quello è stato un amore filtrato dalla passione per un periodo della cultura italiana, gli anni Sessanta, quando la musica brasiliana andava per la maggiore. I contenuti letterali dei brani brasiliani, uniti ai loro ritmi popolari e all'influenza del jazz, è stata una combinazione geniale. Devi pensare che la musica brasiliana è stata estremamente popolare in Italia fino ad un certo punto degli anni degli anni Settanta, poi, quando si è entrati negli anni Ottanta, è completamente scomparsa dal mainstream. Noi italiani, da un certo punto in poi, abbiamo perso molta della nostra dimensione internazionale»

Da dj, come vede la situazione del clubbing? C'è chi dice che il Covid-19 potrebbe essere in qualche modo la pietra tombale delle discoteche, almeno per come le conoscevamo prima...

«Il modello delle discoteche era già in crisi prima della pandemia. Nel momento in cui tu fai diventare il club solo un luogo di intrattenimento o di disfacimento di massa, sei già andato troppo oltre e sei sceso troppo in basso. L'aggregazione dovrebbe essere sempre collegata alla musica: se la musica non è l'elemento centrale, questi luoghi diventano poveri, legati solo alle mode, in cui la gente non si ritrova più perché li sente troppo distanti e privi di contenuti. Nel momento in cui sarà possibile riprendere a fare dj-set, bisognerà ridare una connotazione culturale al clubbing, coinvolgendo artisti non improvvisati ed evitando gli intrattenitori da baraccone. Al Medimex di Bari siamo riuscito a fare un dj-set sul lungomare con Gilles Peterson, Jazzanova e me, in cui migliaia di persone si sono divertite, senza stramazzare a terra, libere di vivere tutte insieme con la musica al centro della serata. La politica e una parte della società si sono accaniti contro i club non solo perché non hanno mai avuto interessa per la musica, ma perché hanno sempre avuto l'idea delle discoteche come luoghi di stordimento e non di cultura musicale»

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Gabriele Antonucci