Ligabue
Ray Tarantino
Musica

Ligabue: «I concerti sono il vizio che non voglio smettere mai...»

Il rapporto con il padre che gli ripeteva sempre «i cantanti sono tutti morti di fame», il legame «quasi magico con il numero 7», la prima lezione di chitarra e il concerto dei trent'anni di carriera a Campovolo. Il rocker di Correggio si racconta a Panorama e spiega perché a metà carriera aveva deciso di rinunciare...

Nel giorno del concerto dei centomila a Campovolo vi riproponiamo la nostra intervista dell'anno scorso al rocker di Correggio. Buona lettura.

Quando l'anno scorso ho compiuto sessant'anni ho realizzato che la mia vita è esattamente divisa in due: trent'anni passati ad ascoltare musica e trent'anni a farla» racconta Ligabue via Zoom da Correggio. Alle sue spalle due chitarre, l'attrezzo del mestiere, il simbolo di una traiettoria artistica profondamente ispirata alla sua vita nella provincia emiliana, alle storie, ai riti e ai personaggi del paese, un luogo che regala certezze e abitudini, ma anche un irresistibile desiderio di fuggire per poi magari un giorno tornare a casa. Sensazioni e sentimenti che il rocker ha sviscerato in tutte le declinazioni della sua arte: canzoni, film e libri (come l'ultimo, È andata così. Trent'anni come si deve, edito da Mondadori).

La riporto agli anni Settanta quando suo padre prese in gestione un club, il mitico Tropical, a Rovereto di Secchia. Cosa ricorda di quel periodo?

Mio padre era un inquieto: l'idea di lavorare per altri lo annoiava terribilmente. A un certo punto, dal nulla, annunciò di aver preso in gestione un locale da ballo. Mia madre non reagì bene, ma il locale aprì e papà ingaggiò un deejay olandese che aveva fatto la stagione a Riccione. Gli altri club della zona avevano una programmazione a base di liscio e orchestrine, e così il Tropical, un locale brutto perso nella provincia di Modena, divenne un luogo cult dove la domenica pomeriggio si ballava la disco music mentre il deejay sbraitava cose incomprensibili dietro un oggetto allora misterioso chiamato consolle.

Suo padre l'ha sostenuta nella scelta di diventare musicista?

In casa mia c'era un rito: la domenica a mezzogiorno, papà, dopo aver pagato gli orchestrali che la sera prima avevano intrattenuto i clienti del Tropical, si sedeva a tavola e davanti al classico piatto di cappelletti declamava in emiliano: «Tutti i musicisti sono morti di fame». Sembrava una cosa detta per scoraggiare qualsiasi mia iniziativa in quel senso, ma io in realtà non avevo mai pensato a quel tipo di carriera. Poi, un giorno, all'improvviso, mi regalò una chitarra.

Ricorda la sua prima lezione?

La maschera del Tropical sosteneva di essere in grado di insegnarmi a suonare: si presentò un giorno sbuffando, sudando e suonando con sforzi enormi Una miniera dei New Trolls. Credo sapesse solo quella... Più che una lezione fu un mini show che non mi servì a nulla. Decisi allora di acquistare un prontuario per imparare gli accordi.

77+7, oltre che il titolo della sua ultima raccolta, è anche la sintesi del suo rapporto magico con il 7. Che cosa la lega in particolare a quel numero?

La storia del 7 nasce con le lettere di due ragazze che mi scrissero sostenendo di essere numerologhe. Entrambe mi definivano «un 7 che cammina». Pensai a uno scherzo orchestrato da due che si conoscevano, poi, incuriosito ho cercato di capire su quali evidenze avessero costruito questa singolare teoria: il mio nome, Luciano, è di 7 lettere, così come il cognome. Le mie iniziali, due elle, sono dei sette rovesciati, San Luciano è il 7 gennaio, io sono nato il 13/3 e la somma di questi numeri fa ancora sette. E poi, aggiungevano: «Hai notato che la tua hit più famosa, Certe notti, è la settima del disco in cui è contenuta?». Non solo: il mio primo concerto è del 198…7 e la prima volta in uno stadio è datata 199…7.

E il 77 quando compare?

Quando il mio manager, Claudio Maioli, mi chiama dicendo che stava facendo un po' di conti con la nostra storia. «Fa una certa impressione vedere tutti i singoli che hai pubblicato in trent'anni» mi dice. Scorro quella lista, conto i singoli e sono 77! Un singolo ogni quattro mesi e mezzo dal 1990 a oggi… Decidiamo di farne una raccolta accompagnata da un disco di inediti, apro i cassetti del mio archivio di canzoni mai pubblicate e ne trovo sette (tra queste, «Essere umano», l'ultimo singolo, ndr). Coincidenze, segni del destino? Non so, ma è bello e divertente giocare con l'idea che i numeri possano aggiungere qualcosa in termini di significato ai momenti importanti della vita.

Parafrasando un suo slogan, come ha «tenuto botta» in questo tempo di pandemia e lockdown?

Siamo stati e siamo ancora per certi versi all'interno di un gigantesco stop della vita. Abbiamo tutti messo a dura prova la nostra capacità di resistenza, di resilienza e maturazione. Credo però fermamente nel detto «quel che non ti uccide ti fortifica». Sul piano strettamente personale è stato un periodo complicato: è mancata la mamma di mia moglie senza che ci fosse la possibilità di andarla a trovare in ospedale e poi di celebrarne il funerale.

Quanto le mancano il palcoscenico e il contatto diretto con i fan?

Per me l'emozione dei concerti è insostituibile. Da sempre. Esibirmi davanti a persone che cantano a memoria le mie canzoni, che pagano un biglietto per vedermi e mi mostrano così tanto affetto è una festa incredibile. Mi sembra addirittura strano che non sia io a pagare un biglietto per assistere a tanta bellezza. Dopo l'ennesimo spostamento all'anno prossimo di quello che dovevamo fare quest'anno (l'evento alla RCF Arena di Reggio Emilia, Campovolo, è stato rinviato al 4giugno 2022, ndr) le lascio immaginare il mio stato d'animo… Un'enorme giramento di maroni.

Che effetto le fa vedere suo figlio Lenny dietro la batteria?

Già a due anni teneva il tempo con le bacchette del ristorante cinese. Mia moglie lo portava all'asilo in auto e lui chiedeva di mettere i Nirvana a palla per percuotere i sedili. L'ho coinvolto in Taca Banda, una canzone dell'album Arrivederci Mostro! Era il 2010 e aveva 11 anni. Poi, più di recente, gli ho chiesto di suonare su La cattiva compagnia, un pezzo in cui nella parte finale la ritmica mena di brutto. E lui, sul menare di brutto la batteria, ci sa davvero fare.

Poco più di vent'anni fa aveva preso in considerazione l'idea di smettere: che cosa l'ha fatta tornare sui suoi passi?

L'acqua era diventata troppo alta per me, palleggiavo male con il successo e la popolarità. Non sopportavo l'idea che ognuno mi volesse un po' a modo suo. Andavo dall'edicolante e mi sembrava che volesse ogni giorno accertare che non fossi diventato più stronzo rispetto al giorno precedente. Il successo genera sospetti e cose tipo: «Guarda questo come ha iniziato a tirarsela». Quando incontravo una persona per la prima volta mi sembrava che non ascoltasse nemmeno le mie parole, come se non stesse parlando con me ma con chi si immaginava che io fossi. Ero a disagio, prigioniero di una sensazione di isolamento. Poi ho pensato a tutti i benefici, non solo economici, che il successo porta con sé. E ho realizzato che l'affetto che mi travolge nei concerti è qualcosa di cui non posso proprio fare a meno. È impagabile... Alla fine, sono tornato sui miei passi e ho pensato che in fondo quei brutti pensieri erano solo cazzate.

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Gianni Poglio