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Life: non oltrepassare il limite - La recensione

Horror, thriller e (fanta)scienza. Una cellula marziana viene sviluppata nel laboratorio di un’astronave: ma il miracolo della vita diventa un incubo

Il futuro scientifico di Life: non oltrepassare il limite (in sala dal 23 marzo) non è poi così lontano. Una stazione spaziale che orbita attorno alla Terra riceve da una sonda dei campioni di suolo marziano da analizzare.

Alla ricerca, chissà, di una vita remota. E fin qua ci siamo. Bisogna vedere, però, dove comincia l’altro futuro, quello “fanta”. Perché oramai il genere Sci-Fi  mescola in modo sempre più energico e filtrante ipotesi di verità e prospettive realistiche. Come quelle, ampiamente riconosciute, di esistenze “altre” rispetto alla nostra, da scovare lassù negli spazi eterni.

Neppure troppo remoti, questi spazi, visto che nel film di Daniel Espinosa - quarantenne regista, sceneggiatore e produttore svedese di origine cilena – il box di terra rossa proviene  dal pianeta che ha lo stesso colore della terra, a noi relativamente vicino e radice storica delle più multiformi e a volte stravaganti presunzioni di vita extra. A cominciare, proprio alla fine del diciannovesimo secolo  dalla scoperta astronomica, fatta da Schiaparelli, di quei “canali” che generarono entusiasmi e fantasie senza freni in un labirinto teorico risolto, in parte, col progredire delle osservazioni e delle esplorazoni.

Un team di specialisti

Marte, dunque. Col suo tempo antico e, forse, con la sua civiltà dissolta da millenni. Nascosta, meglio, rifugiata tra quei granelli di terriccio che un gruppo di scienziati maneggia nel laboratorio dell’astronave con pinze, soluzioni chimiche e variazioni di temperatura tentando di stimolare un microrganismo monocellulare scovato al microscopio. Specialisti di prim’ordine, medici e superesperti: il dottor David Jordan (Jake Gyllenhaal), la microbiologaa Miranda North (Rebecca Ferguson), il consumato astronauta Rory Adams (Ryan Reynolds), lo scienziato paraplegico Hugh Derry (Ariyon Bakare), l’ingegnere spaziale Hiroyuki Sanada (Sho Murakami), la cosmonauta russa Katerina Golovkina (Olga Dihovichnaya) che comanda la missione. Bel gruppo.

L’eccitazione della scoperta

L’esperimento riesce, qualcosa si muove. L’attesa è finita, l’evento è epocale, il mondo è in festa. Anche l’equipaggio, multietnico e protagonista della spedizione internazionale, lo è. Eccitazione e tumulto sulla stazione orbitante. Ma il tripudio dura poco. Giusto il tempo di far sviluppare la cellula aliena, prima embrionale, opalescente e filamentosa, poi via via più consistente nello sviluppo, nelle dimensioni , nella forma stellata e tentacolare. Fino al manifestarsi di un’aggressività letale e di un’intelligenza superiore del tutto inaspettate come gli effetti devastanti che quella creatura, risvegliata dal suo sonno ancestrale e ora indistruttibile, partorisce.

Donne e uomini in trappola sull’aeronave, tecnologie impotenti davanti alla bufera di morte e di sangue che si scatena con quell’essere gelatinoso e corazzato che schizza di qua e di là lungo le pareti, corre nei tubi di raffreddamento, saetta nei corridoi, danneggia strumenti e, soprattutto, divora: nutrendo la propria crescita esponenziale e vampiresca con le vite degli umani. Annunciando un epilogo beffardo e, ça va sans dire, un quasi inevitabile sequel.

Vorticosa spirale di terrore

Verrebbe da dire: non stuzzicare il marziano che dorme. Oppure: meglio ciascuno a casa sua. C’è poco da scherzare, tuttavia. Perché, al di là di ogni possibile interpretazione metaforica della faccenda che la fantascienza non smette di sventolare (letture facili, qua), lo scenario resta plausibile nei suoi viluppi e nella sua vorticosa spirale di terrore.

Peggio che sulla Nostromo di Alien, cui pure è inevitabile riferirsi per dinamiche narrative e nella decimazione di un equipaggio impotente. O, magari, meglio di quel che potrà accadere nel favoleggiato Venom, al quale Life viene accostato come possibile prequel. Piuttosto varrebbe la pena  di evocare una parentela più affine a quell’Apollo 18 di qualche anno fa, mai uscito in Italia e dalla vita tribolata, che col suo finto stile documentario – ma alcuni dicono con qualche verità -  racconta (denuncia?) in un tragico bianco e nero i veri motivi dell’abbandono delle missioni lunari da parte della Nasa.

La lotta per la sopravvivenza

Sta di fatto che l’architettura realistica di questo film ne è, in qualche modo, l’elemento dominante e distintivo insieme con la buona tenuta drammatica del racconto. Che in luogo di una vuota ferocia della Cosa e di una sua ansia di conquista demolitrice edifica il concetto di lotta per la sopravvivenza. Non tanto a giustificare la vocazione sanguinaria dell’alieno quanto a rilevare la reciprocità di intenti da parte degli umani: i quali, messo da parte lo scontato rituale scientifico di protezione e conservazione della “scoperta”,  farebbero (e fanno) di tutto per liberarsene e comunque per evitare che tanto abominio possa cadere sulla Terra.

Spaventoso “sistema intelligente”

Sci-fi, horror, thriller. Qualche atomo di splatter. La creatura, meglio, il “sistema intelligente” tutto muscoli, cervello e scaltrezza, si fionda ovunque come la scheggia di una bomba appena esplosa, s’avviluppa alle vittime con forza sovrannaturale, penetra, lacera, macera e sugge.

Il miracolo della vita nascosto nella terra marziana aspettava  solo un segnale e  s’è trasformato in un incubo.  In capo ad una narrazione sufficientemente asciutta e tosta, tecnicamente ben gestita a livello di riprese e di tensioni. Certo, sarebbe tutto più rigoroso, calibrato e perfino razionale se le sceneggiature, seguendo una legge tanto ineludibile quanto opinabile, non imponessero ai loro personaggi eminenti il racconto cronometrico della loro infanzia. Sempre all’approssimarsi dell’appuntamento decisivo e a generare sentimentalismi a volte inutili se non dannosi.

Valide le atmosfere sonore create da una cadenza musicale agonica e pesante. Nei titoli di coda, a sorpresa ma  acconcia e un po’ caustica, spunta la Spirit in the Sky di Norman Greenbaum, rock paradigmatico fine anni Sessanta e parole sparse nel vento siderale invocando Gesù, “quando mi sdraio per morire / sto andando dallo spirito nel cielo / … e andrò in quel luogo che è il migliore”.

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Warner Bros. Entertainment Italia, ufficio stampa film Cristiana Caimmi
Lo scienziato Hugh Derry (Ariyon Bakare) maneggia pericolosamente la cellula aliena. Dietro il vetro del laboratorio lo osserva Miranda North (Rebecca Ferguson)

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Claudio Trionfera

Giornalista, critico cinematografico, operatore culturale, autore di libri e saggi sul cinema, è stato responsabile di comunicazione per Medusa Film e per la Mostra del cinema di Venezia

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