Le premier jour triste sur la terre

L’altroieri è morto un gattino nero che mi ero preso a cuore. Mi era capitato fra le mani per caso; malaticcio e testardo com’era, mi aveva intenerito, cosicché l’avevo portato a casa mia e poi da un veterinario. Né io …Leggi tutto

L’altroieri è morto un gattino nero che mi ero preso a cuore. Mi era capitato fra le mani per caso; malaticcio e testardo com’era, mi aveva intenerito, cosicché l’avevo portato a casa mia e poi da un veterinario. Né io né lui, infatti, c’eravamo rassegnati, e il virus senza nome che l’aveva aggredito non pareva, in questi tempi avanzati, una minaccia insormontabile. Invece né la scienza né tutte le sue forze di gracile gattino orfano hanno potuto battere i demoni che gli si erano nascosti dentro.

La vicenda, lo si vede, è piccola, e la vita di una bestiola ha valore relativo, che non va ingigantito né tantomeno umanizzato; eppure il senso della morte (non, evidentemente, il suo significato) è lo stesso per tutte le creature. Ed è uguale il sentimento di impotenza e frustrazione davanti a una fine che abbiamo provato a contrastare e che percepiamo come profondamente ingiusta.

L’impotenza dolorosa è una sensazione, credo, familiare a tutti noi, soprattutto in questa età dell’informazione globale. Ci capita di provarla davanti alle disgrazie e alle tragedie di cui veniamo a conoscenza, davanti a ogni incidente che falcia la vita di un ragazzo, di fronte alla malattia di un bambino o di un giovane, di fronte alla follia omicida che si abbatte su degli innocenti, all’operaio maturo che muore sul lavoro quando già vede la pensione, o anche di fronte alla cieca fatalità che mette fine a un’esistenza magari appena all’inizio. Tutto ciò ci brucia nel profondo, ci indigna, e in fondo non lo accettiamo. Non possiamo accettarlo, credo, perché ci pare ingiusto.

Una simile sensazione di tremenda impotenza, e un dolore acuto per gente che non conoscevo e per cui non potevo provare che una limitata empatia, li ho avvertiti il mese scorso, seguendo in rete le notizie, via via più sconvolgenti, dell’eccidio di Odessa, in cui più di quaranta persone sono state uccise a colpi di pistola, o soffocate dal fumo, o bruciate vive; mentre altri, saltando dall’edificio in fiamme, trovavano la morte per l’urto con il terreno o finiti a bastonate dai persecutori in attesa. Che decine e decine di persone – nell’Europa del 2014, in tempo di pace – potessero finire vittime di un pogrom neonazista, in mezzo all’inefficienza interessata delle autorità locali e nella sostanziale indifferenza della comunità internazionale e della stessa Unione Europea, mi pareva impossibile prima ancora che folle e criminale. E resto tutt’ora convinto che quei quaranta e più odessiti non sarebbero mai dovuti morire.

Eppure la loro fine non somiglia a quella, certamente dolorosa e ingiusta, del gattino nero. La Morte, da quando cammina su questa terra, ha scelto le sue vittime con una cecità sostanzialmente equanime; e la sua ingiustizia è invece profondamente naturale. I bambini, le madri, le persone che non dovrebbero mai morire muoiono invece da sempre, ed è inevitabile che sia così. Accidente, età, malattia, sono i nomi normali della morte, quelli che portano via i cari e gli sconosciuti; sono regole che non possiamo accettare, giacché le abbiamo trovate già stabilite e non ci piacciono, ma sono eque e naturali.

Ma morire per mano di criminali, per quanto rivestiti di un’autorità statale o di un’uniforme, non è né naturale né equo. Non è nell’ordine legittimo delle cose che l’uomo si arroghi il diritto di uccidere l’uomo; e se raptus o follia omicida sono difficili o impossibili da evitare, è invece inaccettabile rilegittimare la strage come forma della lotta politica o per il potere. Chi ha pensato ed eseguito la strage di Odessa ha commesso un crimine contro l’umanità, di cui prima o poi dovrà rispondere; ma chi ha lasciato che un atto del genere scorresse via come una generica violenza, e non come il ritorno di qualcosa che pareva cancellato dal nostro continente, è come avesse messo una nuova morte su questa terra, o quantomeno su questa nostra Europa che si pensava immune.

Paradossalmente, il male commesso dagli uomini non è quasi mai tollerato per malvagità: il fine che tollera i mezzi è invece per definizione un fine politico e ideale buono e condivisibile. La violenza di Odessa, o quella di mille altri regimi e ribellioni in passato, passa in secondo piano nel nome di una visione ultima, finale appunto, volta al bene. Ma questo curioso calcolo, che mischia Adamo e Prometeo nella sua confusione di ingenuità e presunzione, è sbagliato. Abbiamo già una natura e una Morte amorali; non ci serve, io credo, una politica immorale. Ci serve una politica che si fermi prima del primo torto, se riesce. E, se si trascina oltre, che si fermi, che chieda scusa, che non dica null’altro e faccia un passo indietro, per mescolare Kraus e Adorno; che abbia tale rispetto del nostro dolore, del dolore di tutti, da non chiederci, per le azioni umane, una rassegnazione al Male e all’ingiusto che è profondamente disumana.

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Tommaso Giancarli

Nato nel 1980, originario di Arcevia, nelle Marche, ho studiato Scienze  Politiche e Storia dell'Europa a Roma. Mi sono occupato di Adriatico e  Balcani nell'età moderna. Storia e scrittura costituiscono le mie  passioni e le mie costanti: sono autore di "Storie al margine. Il XVII  secolo tra l'Adriatico e i Balcani" (Roma, 2009). Attualmente sono di  passaggio in Romagna.

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