Le bestie di Tbilisi e noi
BESO GULASHVILI/AFP/Getty Images
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Le bestie di Tbilisi e noi

Parlare di animali su una testata seria sembra, oggettivamente, una futilità. Sarà che veniamo tutti da una civiltà, quella europea occidentale, in cui l’animalismo è una sorta di malattia del benessere (d’altronde più leggera e migliore di tante altre), oscillante fra i cappottini dei cani, la leggera mania nell’affibbiare sentimenti umani a chi umano non è e il delirante, ma pur sempre vacuo e innocuo, “antispecismo”. Sarà insomma che da noi gli animali sono, per lo più, una componente d’arredamento o comunque un fatto tutto antropico e antropizzato.

Gli animali sono invece, in condizioni normali, delle bestie; così come è un animale, e dunque una bestia, l’essere umano. Una riflessione tanto banale mi è venuta in mente la settimana scorsa, vedendo le immagini dell’allagamento dello zoo di Tbilisi. La scena è indubbiamente surreale, e fa un po’ sorridere pensando a questi popoli dell’Est mattacchioni e disorganizzati, ma tutto sommato le fotografie mentono: gli allagamenti a Tbilisi non sono figli della mattacchioneria o del witz di un popolo in cerca di quadretti peculiari, bensì semmai della povertà materiale e infrastrutturale del paese. In effetti non si è trattato solo di una buffa evasione da uno zoo: ci sono stati dei morti, per via delle alluvioni, e altra gente è stata uccisa dagli animali feroci improvvisamente rilasciati per le vie della città (sei lupi sono stati abbattuti nel cortile di un ospedale pediatrico).

La fuga dallo zoo di Tbilisi non è allora quella cinematografica dallo zoo di Belgrado, immortalata in Underground (e basata anche quella, giova ricordarlo, su una storia vera; nonché causata dai bombardamenti nazisti e non da un qualche ridicolo errore umano). Più in generale, l’evasione non è un quadretto surreale, ma un episodio drammatico capitato in un paese già di suo pieno di difficoltà.

Se dobbiamo proprio trovare un precedente e una metafora, potremmo quasi avvicinare gli animali fuggiti dallo zoo di Tbilisi alla pantera che a suo tempo scappò (da un circo? non ricordo) nella campagna romana e che divenne poi, avvistata in continuazione e mai catturata, il simbolo di una potente contestazione studentesca e giovanile. Oggi, forse non a caso, si vedono immagini di giovani georgiani che scendono in piazza con cartelloni su cui hanno raffigurato un ippopotamo; simbolo, a prima vista, di un’ostinata resistenza alla normalizzazione delle autorità e dei regimi, così come l’inafferabile pantera fu il simbolo della pervicacia della resistenza o del suo riapparire di fronte a tutto ciò che non andava (almeno secondo i ragazzi) in quell’Italia di venticinque anni fa.

Però le bestie dello zoo - inadatte tanto alla vita “cittadina” quanto a quella selvatica, che non hanno mai conosciuto - non sono, a ben vedere, esempi di tenacia o di fierezza; si tratta invece di poveri animali che si trovano nel mondo senza capirne nulla e senza sapere come muoversi là dentro: ne hanno paura, sono arrabbiati, sono pericolosi, ma non per questo sanno che fare e come sopravvivere. Se è una metafora, dunque, e potrebbe ben esserlo, è una metafora molto triste.

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Tommaso Giancarli

Nato nel 1980, originario di Arcevia, nelle Marche, ho studiato Scienze  Politiche e Storia dell'Europa a Roma. Mi sono occupato di Adriatico e  Balcani nell'età moderna. Storia e scrittura costituiscono le mie  passioni e le mie costanti: sono autore di "Storie al margine. Il XVII  secolo tra l'Adriatico e i Balcani" (Roma, 2009). Attualmente sono di  passaggio in Romagna.

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