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Joe Raedle/Getty Images
Tecnologia

Cattiva reputazione. Come uscire puliti da internet

Rimuovere link e notizie che screditano la nostra immagine è diventato indispensabile: Ecco come fare

In America sono già stati «catturati» da una definizione. Vengono chiamati eraser oppure cleaner, letteralmente «cancellatori» o «ripulitori». In Italia c’è chi li ha ribattezzati «spazzini». Tutti, però, sul biglietto da visita si presentano come reputation manager. Professionisti che si occupano di ripulirel’immagine di chi è finito alla gogna sul web, siano essi vittime di bullismo mediatico o di fidanzati rancorosi che postano video porno della propria ex.

Tra chi chiede disperatamente aiuto a questi specialisti non c’è solo la soubrette che vuole cancellare le sue foto intime, finite online non si sa come. Ma anche chi viene danneggiato da fake news, il politico indagato e poi assolto, così come chi ha scontato una pena giudiziaria e vuole rifarsi una vita, il medico diffamato e il ristoratore con troppe recensioni negative.

Negli Stati Uniti l’ingegnere reputazionale è una tra le figure più richieste nelle ricerche di lavoro su Linkedin. Per riviste e giornali come Fast Company, Forbes e New York Times potrebbe diventare una professione molto richiesta in futuro. Per rendersi conto dell’entità di questo trend basta una ricerca su Google: compaiono milioni di risultati.

«Verba volant, scripta manent» dicevano i latini. Rivista e corretta nell’era dei social network, questa massima cambia: le parole continuano a essere volatili, se sono scritte su carta rimangono (anche se possono essere comunque facilmente stracciate), ma se vengono postate online diventano «ad aeternum», ossia indelebili, permanenti.

«Quello che compare su di noi nelle prime tre pagine di una ricerca su Google rischiamo di portarcelo addosso per tutta la vita. È lo specchio di quello che siamo, è il nostro curriculum, la nostra vera (o verosimile) carta di identità» spiega a Panorama Sveva Antonini, avvocato specializzato in proprietà intellettuale e co-fondatrice di Tutela digitale, società bolognese, tra le più attive (e pochissime) in Italia nel campo della cyber reputazione.
«Se la nostra immagine online è infangata, il danno che riceviamo è gravissimo, non solo sui social, ma anche nel mondo del lavoro e dei rapporti personali» continua Antonini. Chiunque oggi usa Google: per sapere qualcosa di più sul collega da cui ha ricevuto un invito a cena oppure sulla persona che si presenterà al colloquio per un impiego. Gli uffici del personale, prima del curriculum, preferiscono leggere quello che gli aspiranti dipendenti postano sui loro social. «Ciò che la rete racconta di noi, vero o falso che sia, diventa un marchio, lascia una traccia indelebile e può rivelarsi un’ombra imbarazzante da cui diventa molto difficile liberarsi» prosegue Antonini.

Come fare, quindi, per «riparare» il nostro io digitale? «Abbiamo brevettato un sistema tecnologico basato su uno speciale algoritmo, si chiama Linkiller ed è una applicazione in grado di eliminare la maggior parte dei contenuti ritenuti lesivi e diffamatori» spiega Gabriele Gallassi, specialista in diritto d’autore, contraffazione e pirateria online, nonché cofondatore di Tutela digitale. «Linkiller rimuove foto e video non autorizzati, notizie datate che non rispettano più il diritto di cronaca, pagine e profili falsi sui social network». In pratica la app, e l’esercito di esperti che l’ha creata, si occupa di inoltrare le richieste di rimozione contenuti ai vari siti e piattaforme che li hanno pubblicati, semplificando la vita di chi è finito nel fango.
Per ora Linkiller funziona solo via web, «ma nei prossimi mesi diventerà anche un’app per smartphone». Il funzionamento semplice e intuitivo, può essere utilizzato anche da un non esperto. Basta registrarsi e indicare i link indesiderati. Il tutto è facile, ma abbastanza costoso: si parte da 50 euro a link rimosso. E per ripulire completamente un’immagine possono servire anche migliaia di euro. «L’eliminazione avviene in tempi brevi. Se non ci sono particolari problematiche, si parla di pochi giorni» spiega Gallassi. Che, per spiegare questi costi aggiunge: «Ogni cliente che si rivolge a noi viene seguito da professionisti come avvocati e giuristi esperti di privacy, diritto all’oblio e proprietà intellettuale, oltre che da informatici esperti in brand e personal reputation, cybercrime e indicizzazione dei contenuti sui motori di ricerca».

Sono molte le società che nel mondo si dedicano alla web reputation. Tra le più importanti, l’americana Reputation X (ReputationX.com) e la britannica Reputation defender (uk.reputationdefender.com). Nessuna, però, è specializzata in diritto italiano. Questo rende, nel nostro Paese, la app Linkiller unica nel suo genere così come Tutela digitale.

Se si va a scavare, infatti, si scopre che la società bolognese non è una start-up senza un retroterra nel settore. È, infatti, una costola della società spagnola Red Points, tra i leader indiscussi della tutela della proprietà intellettuale online nel mondo. Può contare sull’appoggio di investitori interazionali (gli stessi che lanciarono Skype), e conta oltre 200 dipendenti tra Barcellona e New York. «Dalla nostra nascita, nel 2018, abbiamo risolto centinaia di casi con una percentuale di successo che si aggira intorno all’85 per cento» spiega Gallassi. «Solo nell’ultimo anno abbiamo rimosso dal web circa 2.500 articoli pubblicati su varie testate online applicando il diritto all’oblio, un principio, ormai recepito dalla giurisprudenza, che impone la non riproposizione di fatti ormai non più attuali, anche laddove la notizia dovesse essere vera».

Nonostante tutto, per efficaci che possano essere le tecniche di reputation management, c’è sempre qualcosa che non si riesce a bloccare. L’ultima frontiera sono le fake news audio e video. Così realistiche da sembrare vere, sono diventate l’arma dei detrattori di massa. Sono stati «rilasciati» di recente strumenti tecnologici talmente raffinati da far apparire come veri audio e filmati creati al computer. La start-up californiana Lyrebird, sovvenzionata da grandi investitori della Silicon Valley, ha creato un software in grado di ricreare artificialmente timbro e sfumature di una qualsiasi voce. In pratica, come si vede nell’ultimo episodio del film Mission impossible, si potrà parlare utilizzando la voce di un altro. Colossi informatici come Nvidia stanno invece dimostrando come l’intelligenza artificiale sappia generare volti di persone inesistenti, del tutto credibili. Quali saranno i possibili obiettivi di eserciti d’identità fittizie? La rivista Scientific american ne documenta uno preoccupante: la crescita esponenziale di recensioni di prodotti compilate da macchine robot. Dotate di un linguaggio raffinato (e, presto, con moltitudini di facce diverse), in grado di magnificare le virtù di un oggetto per orientare i nostri acquisti con l’inganno.

L’ultima novità nel campo della reputazione infranta sono poi i «porno deepfake». Grazie a uno speciale software dotato di intelligenza artificiale chiamato «deepfake» appunto (su YouTube c’è dove reperirlo e come utilizzarlo), si può creare un video abbinando il volto di una celebrità o di una persona qualsiasi sul corpo di una pornostar sul set di un film. I risultati sono molto verosimili. E soprattutto molto cliccati. L’attrice Scarlett Johansson ne è rimasta recentemente vittima. Il suo video fake a luci rosse ha totalizzato milioni di visualizzazioni a poche ore dalla pubblicazione. In un’intervista al Washington Post, l’attrice si è sfogata dicendo: «Dal punto di vista legale è una battaglia inutile, soprattutto perché internet è un buco nero che si nutre di se stesso». Affermazione che ha un peso detta da chi potrebbe spendere qualsiasi cifra per rimuovere un’immagine diffamante. L’attrice avverte poi che per realizzare questi video basta un’immagine rubata sul prorio profilo Instagram o Facebook.

A quanto pare volti, voce e mimica sono alterabili. Riconoscere la verità diventerà sempre più difficile. Tanto da non poter credere più nemmeno ai nostri occhi. «Tutti siamo in pericolo» ha messo in guardia Johansson dalle colonne del quotidiano americano. «Provare a proteggersi da internet e dalla sua depravazione è fondamentalmente una causa persa». E qui comincia la sfida per tutti gli «spazzini» del web o, meglio, i reputation manager del futuro.

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Guido Castellano