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Economia

Guerra del petrolio: cosa sta succedendo

Il crollo del prezzo del barile, la battaglia tra Arabia Saudita e Russia, il ruolo degli Stati Uniti: chi perde e chi guadagna dal nuovo fronte

Il Black Monday del 9 marzo, con il prezzo del barile, crollato sui mercati internazionali del 30% da 45 a 30 dollari, è stata solo l'ufficializzazione della guerra del petrolio che attraversava da settimane i paesi produttori con forti ripercussioni su tutto il mondo. Non solo l'effetto Coronavirus, la crisi dell'economia mondiale che ha avuto il suo segnale evidente nel crollo degli indici di borsa ovunque, è condizionata anche dagli scenari che il duro confronto sul costo del greggio costringe ad analizzare.

Non è una novità, perché da sempre il petrolio è una componente fondamentale di condizionamento dell'economia mondiale, strettamente legata alla geopolitica. Era dallo scoppio della Guerra del Golfo nel 1991 che non si assisteva a un ribasso così marcato ed era dal 2016 che il prezzo del barile non abbatteva la soglia dei 30 euro come accaduto a una settimana di distanza dal Black Monday. Cosa sta succedendo? Chi ci guadagna? Chi rischia di perderci?

COSA HA SCATENATO LA GUERRA DEL PETROLIO

Detto che segnali incontrovertibili di tensione sul mercato petrolifero erano già presenti a dicembre, con un calo progressivo del suo costo a barile da 60 a 40 dollari, la crisi è stata innescata dal fallimento del negoziato tra Russia e Arabia Saudita per una proroga oltre il mese di marzo del taglio della produzione così da mantenere alto il prezzo. Mosca ha rifiutato la proposta di Riyad innescando il crollo alla riapertura del mercato il 9 marzo scorso.

L'Arabia Saudita, come risposta al 'niet' di Putin, ha annunciato l'intenzione di passare da 9,7 a oltre 10 milioni di barili al giorno rompendo il fronte anche rispetto agli altri paesi dell'Opec. Una sfida al ribasso che rischia di travolgere diverse economie e che sta inondando il mercato di petrolio a prezzo scontatissimo in un momento in cui, complice l'emergenza Coronavirus, la richiesta è ai minimi. Apparentemente un controsenso in cui a perdere dovrebbero essere per primi proprio i paesi produttori.

PERCHE' LA RUSSIA HA DICHIARATO GUERRA

La prima a essere danneggiata dovrebbe essere proprio la Russia. Perché lo ha fatto? Gli analisti ritengono che la mossa del Cremlino possa avere una doppia chiave di lettura: una commerciale (non lasciare spazio sul mercato ai competitori riducendo a lungo la propria presenza, nella valutazione che l'emergenza Coronavirus è destinata a concludersi nel medio periodo) e una politica. Il crollo del prezzo del petrolio mette in difficoltà, infatti, anche gli Stati Uniti di Trump e può diventare una risposta alle sanzioni americane contro la produzione russa di olio combustibile e gas.

La Russia avrebbe scommesso, dunque, sullo scenario in cui il maggior danno lo riceverebbero gli Stati Uniti mentre l'Arabia Saudita non avrebbe la possibilità di mantenere a lungo la sua posizione perché obbligata dalla necessità di alti ricavi per coprire le spese belliche in Yemen e in altre zone calde medio orientali. Geopolitca che si intreccia con lo shock economico del Coronavirus che ha causato in una settimana il collasso di Wall Street e delle principali piazze finanziarie del mondo.


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CHI PRODUCE PETROLIO NEL MONDO

Russia, Arabia Saudita e Stati Uniti non sono, però, gli unici tre attori sulla scena del mercato del petrolio. Secondo i dati di EIA (U.S. Energy Information Administration) relativi al 2018, i tre paesi insieme garantiscono il 41% della produzione globale: 18% gli USA, 12% l'Arabia Saudita e 11% la Russia. Poi c'è il resto del mondo con Canada, Cina e Iraq (5%), Iran e Emirati Arabi Uniti (4%), Brasile e Kuwait (3%) e una miriade di altri produttori. I veri anelli deboli della catena che rischiano di pagare il prezzo più alto in quanto maggiormente legati con i loro bilanci all'estrazione del greggio, in alcuni casi già sotto schiaffo di sanzioni internazionali come il Venezuela oppure coinvolti in situazioni di estrema tensione come Libia e Algeria.

Se è vero che la Russia dipende per circa metà dei suoi conti dall'industria petrolifera e del gas e che gli Stati Uniti hanno bisogno di un prezzo alto perché il loro petrolio ha costi di produzione più elevati, la guerra del barile condiziona una platea molto più ampia di paesi e sistemi economici.

CHI GUADAGNA DALLA GUERRA DEL PETROLIO

A una prima lettura c'è anche chi ci guadagna dal crollo del prezzo del barile e dalla sovrapproduzione imposta dall'Arabia Saudita. Al di fuori dei produttori, infatti, c'è un lungo elenco di clienti che stanno ricevendo l'oro nero a costi fuori dal mercato. Un'opportunità importante in una fase di crisi generalizzata, ma anche un elemento di instabilità perché alla lunga potrebbe innescare il meccanismo della deflazione e andare ad impattare sull'intero tessuto economico.

Sono scenari ancora lontani ma che già oggi riempono le agende degli analisti. L'evoluzione continua della pandemia, il graduale coinvolgimento di tutti i continenti senza esclusione, le fluttuazioni sui mercati finanziari e le misure di sostegno e contrasto messe in campo dai governi per migliaia di miliardi di euro richiedono un costante aggiornamento del quadro di riferimento. La guerra del petrolio, invece, rischia di cambiare in maniera permanente il settore a cominciare dallo storico rapporto tra Arabia Saudita e Opec. Non è la prima volta che accade, ma il Black Monday ha riportato indietro le lancette del tempo di quasi vent'anni.

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Giovanni Capuano