Gallera: «In Lombardia cambiamo passo con drive-in e telesorveglianza»
L'assessore alla Sanità della Regione Lombardia Giulio Gallera (Ufficio stampa Regione Lombardia).
Politica

Gallera: «In Lombardia cambiamo passo con drive-in e telesorveglianza»

  • Panorama ha condotto un'indagine per capire come mai la regione più ricca d'Italia è stata sopraffatta dal coronavirus. L'inchiesta è pubblicata in cinque puntate a partire dal 12 maggio.
  • Quinta puntata: L'assessore al Welfare della Lombardia spiega la nuova strategia della Regione contro il Covid: «Rimettere il territorio al centro».

«Lo scatto in più rispetto a prima è che il medico di medicina generale, così come il medico competente, attiverà il tampone, che il tampone verrà fatto in tempi più ristretti e che i contatti diretti di un caso positivo verranno sorvegliati e se diventeranno sintomatici gli si farà il tampone». L'assessore al Welfare Giulio Gallera illustra a Panorama le nuove misure che, attraverso una delibera sulla sorveglianza e un'ordinanza del presidente Attilio Fontana, la Regione Lombardia ha adottato per il contrasto al coronavirus. «Un percorso strutturato che ha l'obiettivo di individuare subito i primi sintomi dell'insorgenza del Covid, rintracciare tutti coloro che hanno avuto contatti con questa persona e metterli in isolamento. Quindi riducendo la diffusione del contagio». A quasi tre mesi dal primo caso tracciato ufficialmente in Italia, la Regione Lombardia ha individuato la strategia per combattere il virus. Ma occorrono le risorse per dispiegarla sul campo.

Cominciamo dai tamponi. Dove si faranno?

«L'abbiamo scritto in questa delibera. Si faranno o nei drive-in, cioè in quelle tende in cui si entra in macchina, oppure negli ambulatori degli ospedali e delle Ats. A fare i tamponi provvederanno anche le Usca (Unità speciali di continuità assistenziale che si recano al domicilio dei malati, ndr), le Adi Covid, cioè l'assistenza domiciliare per i malati di coronavirus e ancora ci saranno i medici o gli infermieri delle Asst (Aziende socio-sanitarie territoriali, ndr), che se necessario andranno a domicilio.

Ma ci sono i numeri sufficienti? I drive-in sono già stati allestiti?

«Sì, sì. Noi stiamo già utilizzandoli per fare i tamponi a chi deve rientrare al lavoro. Ne fanno sei all'ora».

E quanti drive-in ci sono?

«Dipende... Di solito sono nei parcheggi dell'ospedale. In questo momento ne abbiamo qualche decina».

Lei citava le Usca. Il Dpcm dice che ce ne vuole una ogni 50.000 abitanti. Quindi in Lombardia ne servirebbero 200. Quante sono attive?

«Ne abbiamo 50, che vanno a casa dei pazienti su richiesta dei medici e non c'è una coda, anche perché siamo in una fase in cui c'è minore bisogno. Finora hanno fatto circa 6.000 visite e soddisfano quello che è il fabbisogno attuale».

E i familiari dei casi positivi, chi li traccia? Immagino che ci vorrà un esercito di tracciatori, se si vuole mapparli tutti.

«I familiari vengono indicati e messi in isolamento dal medico di medicina generale».

Ma i medici di base sono sufficienti? Qui si tratta di fare una vera e propria mappatura, con telefonate e incrocio di dati. Per realizzarla, altre regioni hanno assoldato giovani specializzandi...

«Anche noi lo facciamo. Abbiamo un'attività telesorveglianza e telemonitoraggio: a oggi abbiamo 7.000 concittadini telesorvegliati e telemonitorati attraverso alcune piattaforme. Una per esempio è quella dell'università di Milano, che utilizza gli specializzandi, e che oggi ha preso in carico più di 1.000 persone. Alcune di queste sono state utilizzate sui pazienti dimessi, cioè quelli che uscivano dall'ospedale ma erano ancora positivi, ma queste piattaforme possono essere usate anche per chi è sul territorio. Poi noi abbiamo fatto una gara come regione Lombardia una per piattaforma di telemonitoraggio, attiva ormai da due settimane, che ha capacità di sviluppo di 20.000 kit che prevede che al malato segnalato da medico viene portato kit con saturimetro e uno spirometro. Tutti questi dati vanno sul portale dei medici di medicina generale, ma c'è anche la possibilità di sorveglianza da parte di una centrale operativa che chiama su indicazione del medico. Comunque abbiamo una rete di sistemi informatici per il monitoraggio di queste persone».

Questa è una novità. Finora non si era riusciti a star dietro a tutte le necessità di monitoraggio e di mappatura dei casi sospetti. E i medici di base lamentavano di essere stati abbandonati...

«Queste attività di telesorveglianza di cui ho parlato si sviluppano da oggi in poi insieme ai medici di base. È chiaro che Regione Lombardia è stata travolta da numeri enormi. È chiaro che quello che le attività delle Ats sono state molto ampie, soprattutto in relazione alla capacità di elaborazione dei tamponi. Abbiamo fatto quello che siamo riusciti a fare per quello che abbiamo avuto. Chiaro che il rapporto con i medici e quello dei medici con i pazienti è stato gestito per quello che si riusciva. Le Usca sono un passaggio importante... Adesso il rapporto con i medici è un rapporto che si è strutturato. È chiaro che quel mese e mezzo è stato complicato per tutti. Soprattutto perché i medici non avevano dispositivi, ma non li avevano perché il governo nazionale non ce li ha dati. E non li ha dati a loro».

Però un audit fatto dopo l'influenza suina, nel 2010, metteva in evidenza le carenze del piano pandemico regionale. La delibera 1046 della Regione Lombardia diceva chiaramente che era compito delle allora Asl distribuire ai medici di base i dispositivi di protezione.

«Infatti lo diceva anche il piano pandemico nazionale del 2007: chi è deputato alle acquisizioni in caso di emergenza è il governo nazionale. Rifornire i medici di medicina generale, che non sono dipendenti nostri, ma liberi professionisti che hanno un accordo con il governo e con lo Stato, è compito dello Stato».

Sta di fatto che in altre regioni, come il Veneto e l'Emilia Romagna i dispositivi sono arrivati dalla Regione e non dallo Stato.

«Anche da qua poi sono arrivati. Abbiamo fatto esattamente quello che hanno fatto le altre regioni. Abbiamo supplito noi: i mezzi che hanno adesso glieli abbiamo dati noi, il governo non glieli ha mai dati. Quello che hanno ricevuto lo hanno ricevuto da noi, a fronte del fatto che ne erano sguarniti per fare l'attività che dovevano fare».

A coordinare l'emergenza ci sarebbero dovuti essere gli uffici di Igiene pubblica, che tradizionalmente si occupano della prevenzione e delle epidemie. Ma in Lombardia sono stati i grandi assenti perché di fatto sono stati quasi smantellati. Avete intenzione di riattivarli? In Veneto ed Emilia sono stati fondamentali nella lotta al Covid.

«Non è così: da noi a capo di tutto c'erano i Dips delle Ats, quindi i dipartimenti di igiene pubblica e nella task force chi ha governato questi processi sono stati esattamente i Dips. E la nostra è una regione che dal punto di vista della sanità pubblica e dei tracciamenti solo poche settimane prima dello scoppio del coronavirus ha dato prove straordinarie, con l'esplosione di meningite di inizio gennaio. Questo non c'entra niente: il vero tema è che qua in Regione Lombardia siamo stati travolti da una bomba atomica, ma i tracciamenti che noi abbiamo fatto sono stati puntuali ed efficaci finché siamo stati in grado di farli finché i numeri ce lo consentivano. Quando ogni giorno si hanno 1000 o 2000 nuovi positivi, vuol dire che i numeri da gestire sono tali che non c'è Dips o dipartimento in grado di farlo. Noi all'inizio abbiamo fatto un lavoro straordinario: dopo il caso 1 nell'arco di tre ore avevamo individuato qual era l'ipotetico paziente zero, lo avevamo prelevato a casa e lo avevamo portato al San Matteo di Pavia, così come avevamo fatto i collegamenti diretti fra Codogno, Cremona, Milano, cioè di tutti i contatti che c'erano con un tracciamento puntuale ed efficace fatto dai nostri Dipartimenti. Il fatto che in Regione Lombardia le attività erogative siano collocate nella Asst, e che le vaccinazioni le facciano le Asst e non più le ex Usl è un dato organizzativo che non ha avuto nulla a che fare con tutto questo e non ha inciso nella capacità di tracciare. Quello che ha inciso è la fiammata_la realtà è che qui c'è stato un cratere, un fungo atomico, che ha travolto tutti».

Lettere di medici ed ex dirigenti dell'Igiene pubblica parlano di «pressoché totale assenza delle attività di Igiene pubblica» e di «collasso operativo».

«Polemiche... La nostra è un'organizzazione capillare, strutturata, solida. Ci sono delibere che metteremo a disposizione dei medici. Noi ci stiamo strutturando in maniera concreta. E dentro una delibera c'è l'assunzione di personale, così come previsto dalle indicazioni dello Stato. Noi rinforzeremo i nostri sistemi di prevenzione, i nostri Dips, le nostre unità operative della prevenzione. Dobbiamo arrivare ad avere un migliaio di nuove persone, come previsto dalle indicazioni del governo, un po' coinvolgendo quelle assunte ora e un po' assumendone di nuove».

Ma secondo lei questa battaglia si vince in ospedale o sul territorio?

«Secondo me oggi non lo può dire nessuno. Perché è evidente che il controllo del contagio va fatto sul territorio. A noi è scoppiato in mano e quindi non siamo riusciti in quella fase a immaginare un controllo sul territorio. Adesso va fatto sul territorio. È chiaro poi che per le persone più fragili il posto letto in ospedale non è sostitutivo. Ma sicuramente il territorio ha un ruolo fondamentale. L'attività di prevenzione e, soprattutto oggi che lo sappiamo, il governo della diffusione del contagio va fatto sul territorio in maniera capillare. Poi, per la cura, se si riesce a prenderli in maniera preventiva è meglio».

Però tutti gli addetti ai lavori, fra cui il professor Crisanti di Padova, dicono che si vince sul territorio. Forse l'approccio ospedalo-centrico della Lombardia ha giocato a svantaggio.

«Quello che abbiamo vissuto qui è che a noi è esploso... La fortuna del Veneto è che hanno avuto un focolaio a Vo', un comune da 3000 abitanti, che hanno chiuso, mappato e bloccato lì. Noi a Lodi 24 ore dopo abbiamo chiuso un'area da 60.000 abitanti, non da 3.000, facendo i tamponi a tutti. Poi non avendo più altri focolai veri è chiaro che quello è il lavoro che andava fatto, ma non siamo stati messi nelle condizioni di farlo per quello che è successo. Le ospedalizzazioni non sono state una scelta, ma sono state un obbligo. Noi in quel momento non potevamo fare altro. In quel momento non c'era da lavorare sul territorio, perché la gente sul territorio moriva. Non è stata una scelta strategica, è stato un obbligo. I nostri erano ammalati gravissimi».

Tutti gli esperti dicono che il focolaio di Codogno è stato gestito bene. Però aggiungono che, per esempio, aver portato i malati da Lodi e dintorni in vari ospedali lombardi ha fatto sì che il contagio si estendesse.

«È stata una questione di numeri. Noi abbiamo avuto migliaia e migliaia di persone ricoverate in ospedale. I posti letto nelle pneumologie sono passati da 1.000 a 12.000»

Passiamo ai tamponi, in questa fase fondamentali. Riusciamo a fare quelli di cui abbiamo bisogno?

«Stiamo lavorando ad ampliare il numero dei laboratori: siamo passati dai tre dei primi giorni ai 49 oggi. Noi processiamo 15.000 tamponi al giorno e contiamo di arrivare a fine maggio a 30.000. Ma stiamo lavorando su questo, che sicuramente è lo snodo più importante, per cercare di arrivare a 50.000 per l'estate».

E il problema dei reagenti è stato risolto?

«No... È un problema che attanaglia tutti. Ci sono continue innovazioni per cui si usano meno reagenti, ci sono più macchine che hanno reagenti diversi. È un problema che abbiamo tutti».

Ma non il Veneto. A Padova i reagenti se li fanno da soli perché hanno macchine a circuito aperto e non a circuito chiuso.

«Anche noi. All'università Statale di Milano e al San Matteo facciamo gli home made che però servono solo su una parte perché l'estrazione deve essere fatta comunque con i reagenti che arrivano da fuori, la parte invece di sviluppo, di esplosione, viene fatta con reagenti che creiamo noi.

A Padova hanno comprato una macchina statunitense che fa 9.000 tamponi al giorno. Anche voi avete intenzione di investire su macchine particolarmente efficaci?

«Sì, sì. C'è una manifestazione per l'acquisto di otto macchine uscita due settimane fa, fra cui macchine molto performanti come quella di Padova. E poi sono tutte macchine, anche quella del Veneto, che poi hanno grossi problemi perché sono molto innovative e prima di essere settate hanno bisogno di tanto tempo».

Il rischio di una seconda ondata di Covid-19 in autunno c'è. State pensando anche voi di fare ospedali full Covid?

«Ci stiamo lavorando. Per ora manteniamo tutto quello che abbiamo creato e poi stiamo andando a individuare aree Covid o ospedali Covid per essere pronti».

Se insorgono nuovi focolai, che cosa avete previsto? La creazione di micro-zone rosse? Vi state organizzando?

«Abbiamo un software che analizza capillarmente i dati a livello di Comune e stiamo approntando un software che ci permetterà di monitorare la situazione anche a livello delle singole vie. Già oggi abbiamo, giorno per giorno, il quadro di dove sono collocati i positivi della giornata. Abbiamo il sistema Mainf, che ci consentirà di monitorare i singoli territori per chiudere singole aree, aziende, piuttosto che comuni o quartieri in cui ci siano persone con la febbre o nuovi focolai...

E se verrà chiuso un quartiere di Milano, chi controllerà che nessuno esca? Chi porterà da mangiare ai confinati?

«Sarà come abbiamo fatto per Codogno e Lodi, con le chiusure fatte a cura delle forze dell'ordine. Il governo ha attribuito questa competenza alle Regioni. E poi sistemi di Protezione civile. Noi ancor oggi abbiamo persone in quarantena a cui i Comuni portano medicine e da mangiare».

Ma chi decide la strategia sanitaria della Regione?

«Abbiamo un comitato tecnico scientifico formale, che contiene virologi, infettivologi, terapie intensive. È un organismo di una trentina di persone con due o tre esperti per ogni materia che ci supporta in tutte le decisioni che prendiamo».

Qualcuno dice: «Ma perché la Lombardia non preso un consulente noto a livello internazionale, tipo Alessandro Vespignani, che è stato chiamato anche alla Casa Bianca»?

«Noi abbiamo una regione ricca, con tante persone di grande qualità e le abbiamo coinvolte tutte: nel nostro gruppo ci sono Giuseppe Remuzzi, Silvio Garattini, Massimo Galli, Fausto Baldanti... Questa è una malattia che coinvolge virologi, immunologi, igienisti... Ognuno porta la propria competenza».

E questa è la squadra che sta lavorando al futuro nel caso riprendesse il virus?

«Loro sono dei consulenti...».

Ma c'è qualcuno che lavora h 24?

«Certo: la Direzione generale del welfare e la task force sanitaria della Regione».

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Elisabetta Burba