Con il conflitto ucraino, il Vecchio Continente è diventato il principale hub di difesa militare al mondo. Ma la richiesta di munizioni è superiore alle capacità produttive dei vari Stati. Con il rischio per la Ue di restare «scoperta» in caso di guerra globale.
Keep the Russians out, the Americans in, and the Germans down». È la sintesi della dottrina che ha guidato ogni scelta dell’Alleanza atlantica sin dalle sue origini, dal Secondo dopoguerra in poi. Oggi, in ragione delle mutate condizioni internazionali, la celebre «formula», opera del primo segretario generale della Nato, Lord Hastings Lionel Ismay, ha subìto una revisione di non poco conto, sintetizzabile più o meno così: «Keep the Russians out, China away, and Nato together». Lo si è compreso una volta di più all’ultimo vertice dell’Alleanza atlantica in quel di Vilnius dove, in ordine al nuovo ordine di scuderia – «Nato together» – la segreteria ha puntato a tenere uniti i Paesi contributori, accontentando il più possibile i maggiorenti della compagine militare. Ecco perché da una parte sono state accolte le richieste della Turchia, da cui dipende l’ingresso della Svezia nella Nato, dall’altra sono state ammansite le pulsioni di Francia e Regno Unito.
Soprattutto, il vertice di Vilnius ha strizzato l’occhio agli appaltatori europei della difesa, subissati da richieste di ogni tipo: proiettili, esplosivi, missili, mezzi da combattimento, logistica. Lo scopo? Investire nella produzione scommettendo che la guerra in Ucraina durerà ancora anni, come per le guerre cecene e i conflitti degli Usa in Afghanistan e Iraq. Ecco quindi un contesto di produzione di armi mai conosciuto in precedenza.
In un giorno medio, oggi l’Ucraina e la Russia si sparano a vicenda migliaia di proiettili di artiglieria, a un ritmo più veloce di quanto gli alleati possano fabbricarli. Nel 2023, in sole 24 ore la Russia ha sparato in territorio ucraino una quantità di munizioni simile a quella che l’Europa intera è in grado di produrre in un mese.
Questo ha impartito a molti Paesi Ue una lezione importante: che i livelli delle scorte permanenti di munizioni necessari per essere davvero preparati a un conflitto erano stati calcolati drasticamente male. Con il paradosso che tutte le armi prodotte sono oggi destinate a difendere gli altri, rischiando di restare «nudi» in caso di necessità.
A differenza degli Stati, i grandi industriali privati non si fidano di governi ondivaghi e illusoriamente pacifisti. Per quale ragione, inoltre, le aziende dovrebbero investire capitali ingenti, chiedere anticipi in banca e acquistare materie prime per produzioni decennali, se la guerra, in realtà, può finire già entro l’anno?
Un mezzo corazzato ordinato stamattina all’inglese Bae Systems non potrà essere consegnato prima del 2030 allo Stato attuale, causa l’aumento della richiesta, le difficoltà logistiche per il reperimento di semiconduttori e la scarsa manodopera qualificata (la Renk AG di Hannover fatica a trovare 100 operai specializzati).
Navigare a vista non è possibile per l’industria della difesa europea, soprattutto se la posizione statunitense del sostegno all’Ucraina «sempre e comunque» dovesse mutare. Non avverrà fintanto che alla Casa Bianca ci saranno i democratici, affermano oltreoceano. E sarete adeguatamente remunerati, assicurano i vertici dell’Allenza atlantica.
I numeri sono inequivocabili: commesse e ordinativi crescono da 18 mesi, cosa che ha portato il mercato dell’industria bellica a un valore sui 120 miliardi di euro l’anno. La tedesca Rheinmetall AG, produttrice dei carri armati Leopard 2, ha visto crescere le richieste del 130 per cento nel 2022, altre società europee come Thales SA, Dassault Aviation SA e Saab AB hanno guadagnato tra il 60 e l’80 per cento in più in meno di un anno.
Segno di un’importante inversione di tendenza per il settore, dopo anni di riduzione della spesa in seguito al crollo dell’Unione Sovietica. Nel 1988 i Paesi europei avevano speso 343 miliardi di dollari per le loro forze armate, nel 2013 quella cifra si era ridotta di un quinto. A partire dall’annessione della Crimea da parte della Russia nel 2014, la tendenza si è invertita: con un aumento della spesa che nel 2022 aveva già superato il record, arrivando a 357 miliardi di dollari.
La settimana di Vilnius ha visto l’Ue concordare anche una serie di misure per incrementare la produzione di munizioni e missili del blocco, inclusi 500 milioni di euro espressamente finalizzati ad aiutare le aziende dell’Unione nell’aumento delle capacità produttive.
Ecco il significato di sottoscrivere contratti di fornitura pluriennali, ufficialmente per rafforzare la propria sicurezza. Cosa che fa il pari con la decisione dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico di aumentare a 300 mila la dimensione delle «forze ad alta prontezza»: truppe alleate a capacità operativa in meno di 30 giorni. Stiamo parlando di una crescita di sette volte rispetto agli attuali effettivi della Nato, che andranno addestrati ed equipaggiati, specialmente dagli europei.
Anche perché le grandi aziende americane come Raytheon Technologies Corp., o Lockheed Martin Corp., nonostante le dimensioni colossali non riescono a coprire l’enorme domanda globale di armamenti, scatenata dall’invasione dell’Ucraina e dal precipitare degli eventi tanto in Est Europa quanto nel mar Cinese meridionale (leggi Taiwan).
Al contempo, è stato lo stesso presidente americano Joe Biden a chiedere all’Europa (come fece Donald Trump) di assumersi maggiori responsabilità e sostenere i costi per la difesa comune nell’ordine del 2 per cento del Pil. Regno Unito, Germania, Francia e Italia hanno acconsentito, anche per evitare uno scenario paradossale in cui il Vecchio continente fornisce armi e munizioni ad altri, come mai in precedenza, ma non riesce a proteggere sé stesso.
Il fronte europeo della Nato punta dunque a fare dell’Unione e della Gran Bretagna il principale hub industriale al mondo per la difesa. Ma il settore, che sta conoscendo una richiesta superiore alle capacità effettive di produzione, deve affrontare numerosi ostacoli: non solo carenze di componenti e di personale, anche ostacoli burocratici per i permessi.
Prova ne sia la Germania, dove il ministero della Difesa ha bisogno dell’approvazione parlamentare per qualsiasi ordine superiore ai 25 milioni di euro, che basterebbero per appena 7.500 proiettili di artiglieria da 155 mm, secondo i calcoli della Rheinmetall. Tale numero applicato in Ucraina sarebbe sufficiente per meno di una settimana, dato il tasso di bombardamenti da entrambe le parti.
Per far sì che i ritardi delle imprese europee non inducano i governi a rifornirsi altrove (Israele, Corea del Sud, gli stessi Stati Uniti), gli sforzi sono comuni: sebbene gli obiettivi discussi ancora a Vilnius siano coperti dal segreto, si vocifera che i Paesi Nato dell’Europa abbiano concordato di aumentare di 10 volte la produzione di ogni asset strategico – munizioni, armamenti, mezzi terrestri e aerei – entro il 2030. In tempo, cioè, per gestire una possibile guerra per la propria difesa senza restare con gli hangar vuoti.
