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Economia

Tridico (Inps): "sono figlio dello Stato Sociale"

Il presidente Inps spiega a Panorama perché il Reddito di Cittadinanza è la più grande conquista del welfare italiano

È il suo primo giorno da presidente votato dal Parlamento, come si sente?

Bene. Ma so che senza lo stato sociale io non sarei qui, oggi, a parlarle.

In che senso?

Lei non sarebbe venuto a cercarmi.

Non mi sottovaluti.

No, ma in ogni caso non mi avrebbe trovato. Ci sarebbe stato sicuramente «un altro» Tridico. Ma forse non si sarebbe diplomato, sicuramente non si sarebbe laureato, di certo non sarebbe uno studioso del reddito di cittadinanza,

e senza il minimo dubbio non sarebbe oggi presidente dell’Inps, uno dei padri orgogliosi di questa riforma.

E cosa avrebbe fatto l’altro Tridico, senza lo stato sociale?

(Sospira). L’emigrante. Lavapiatti in Germania. Forse - con un po’ di fortuna - il cameriere caposala. Ero a buon punto.

È una affermazione impegnativa.

La mia storia lo dimostra. Sono un figlio del welfare e dei diritti sociali conquistati dalla Repubblica.

Si sente di dire, già ora, che il reddito ha funzionato?

(Sorride). Se ha funzionato? Non mi aspettavo un successo così grande.

Il Pd dice: «Poche domande, è un flop».

Mentre le parlo siamo a 1.125.960 cittadini richiedenti. Dopo il primo boom sono arrivate altre 100 mila domande al mese, un ritmo più sostenuto di quanto immaginassimo.

Però non resterà questo.

Certo. Ma la stima più prudente è di 1,3 milioni di domande. Cioè almeno un milione accolte, la più grande opera sociale mai realizzata in Italia. Se questo è «poco», vorrei capire cos’è «molto».

Lo immaginava così?

È un vestito su misura tagliato sulle ingenti risorse stanziate. Ma è anche un cantiere dove correggiamo in corsa tutto quel che può essere migliorato.

Per esempio?

La revisione Isee corrente permette di accedere al reddito a tutti quelli che hanno perso il lavoro nel 2017, ma che nell’Isee 2018 avevano ancora un reddito.

È il caso degli operai di Pomigliano saliti sul campanile.

Per loro ho varato un provvedimento ad hoc, ma tanti che hanno perso il lavoro nel vecchio Isee avevano ancora un reddito.

E per questi?

Si stanno rivedendo i criteri di accesso, rendendoli più generosi. Nel prossimo decreto si allargheranno le maglie e praticamente si potrà fare sempre riferimento all’Isee corrente sia per chi ha avuto interruzione di lavoro che per chi ha avuto riduzione del 25 per cento del reddito. L’attuale legge richiede che entrambe le condizioni debbano sussistere. Con la nuova legge si aggiunge una «o» al posto di una «e».

Cambia molto quel «e/o»?

Sì! In questo modo rientrano quasi tutti i percettori di sussidi di disoccupazione.

Perché questi aggiustamenti in corsa?

Non c’è alcun precedente. Tutti pensavano che il reddito fosse folle utopia.

Invece?

È diventato il tema più importante della campagna elettorale, è stato votato da milioni di elettori, è stato il punto irrinunciabile di un programma politico condiviso nel governo. Oggi è realtà.

E ora?

Posso ricordarle cosa è stato detto e scritto? «Non troveranno i soldi», «Non ci sono le card», «L’Europa non lo vuole», «Non si possono mischiare politiche del lavoro e assistenza»...  Da questo mese il governo ha iniziato a erogare.

L’onorevole Marattin prende in giro la sua iniziativa del pullman dicendo che l’Inps «cerca i poveri con il camper».

Sono arrivati a dire che con il camper vado in vancanza. Battute ridicole, non per me, o l’Inps, ma perché fatte sulla pelle di tanti poveri che non hanno nemmeno la capacità - intellettuale o materiale - di presentare domanda.

E lei li vuole andare a cercare?

Certo. Uno per uno. Siamo la più grande istituzione sociale di questo Paese.

E li troverete?

Certo. Sappiamo già dove e quanti sono. A Roma quelli censiti sono 17 mila, ma solo in mille hanno fatto domanda.

Dicono che è una caccia di voti.

Accusa miserabile. Molti dei 50 mila che raggiungeremo non hanno mai votato!

Potrebbero iniziare ora.

Sono numeri così piccoli che se lo scopo fosse il consenso elettorale non avrebbe senso. È una questione etica.

È difficile per persone così reinserirsi nel mercato del lavoro.

Molti dei cosiddetti barboni hanno bisogno di un’opportunità, e noi gliela daremo.

E gli altri?

Per quelli che non riusciranno a rientrare il reddito resta una misura che salverà delle vite. Lavarsi, dormire al caldo, mangiare.

È l’obiettivo minimo della campagna dei camper?

Sì, ma non è poco. Per un Paese ricco, come il nostro, impedire che i suoi cittadini muoiano per strada di fame e di freddo mi sembra un dovere minimo.

Incontro Pasquale Tridico, neo presidente dell’Inps, nel suo ufficio di rappresentanza di Palazzo Wedekind, proprio di fronte a Palazzo Chigi: così vicino che lui e Luigi Di Maio possono salutarsi dalla finestra. Proprio mentre stiamo parlando il Parlamento ratifica la sua nomina all’Inps con una maggioranza superiore a quella del governo. Il professore è entusiasta per i primi successi del reddito, inizia a parlare al tavolo della segreteria, e alla fine facciano tutta l’intervista lì. Tra i dati che cita a memoria, la sua storia personale e il racconto del progetto, il tempo vola.

Perché si sente «figlio del welfare».

(Sospiro). Mio padre ha iniziato a parlare dopo di me.

In che senso?

Letterale. Sono nato in Calabria, nel 1975, a Scala Coeli, paesino a nord di Crotone. Mio padre Francesco fino al 1979 faceva il guardiano di mucche.

Come il protagonista di Buffalo Bill di Francesco De Gregori.

Uno dei miei cantautori preferiti. Papà - come mia madre - non sapeva né leggere né scrivere. Lui per giunta non parlava, era sordomuto dalla nascita, considerato un ritardato.

E nel 1979 cosa succede?

Lo stato sociale entra per la prima volta nella vita della mia famiglia.

Come?

Mia sorella maggiore, vent’anni più grande di me, con grandi sacrifici arriva a Salerno per l’università e si laurea.

E che legame c’è?

Mentre studia, scopre che la sindrome di mio padre è curabile, e che la mutua poteva passargli - gratuitamente - un apparecchio acustico.

E lui lo mette.

Questo gli cambia la vita: recupera l’udito e persino la parola, anche se, per tutta la vita, parlerà come un bambino.

E poi?

Un altro mio fratello, il secondo, va a studiare a Torino. Dove scopre che c’è possibilità del «collocamento obbligatorio» - noi non lo sapevamo! - per le persone come lui.

E cosa fa?

Lo convince a fare domanda da bidello in una scuola torinese. La presenta lui. Papà ottiene il posto, nel 1981, e ci trasferiamo.

La fortuna della sua vita.

(Ride). Mica tanto. In Calabria ero il primo della classe, a Ferriera, nella periferia di Torino, divento l’ultimo.

Perché?

Per l’accento, per le inflessioni dialettali, non so: diventavo a tutti gli effetti «un terrone». Per integrarsi bisogna avere anche fortuna.

E che succede?

Dopo due anni io e mia madre torniamo in Calabria.

Due case, due città. Grandi spese.

A partire dai miei 15 anni, per quattro mesi all’anno, faccio vacanze-lavoro in Germania.

Con chi?

Con un altro mio cuginetto, della mia età.

Non ci credo.

Parto per Monaco con mio cugino Ottavio. Il primo viaggio all’estero della mia vita.

Possibile?

Non potevamo espatriare da soli, perché avevano meno di 16 anni. Ci accompagnava un altro cugino. Che però, a Metaponto, si accorge di aver dimenticato il documento: «Io torno indietro, vi spiego come fare».

Un’odissea!

Al Brennero il controllore prende le carte di identità e ci dice: «Dovete scendere!».

E voi?

Lo facciamo. Ma appena vediamo la divisa che passa di vagone, spiando dai finestrini, attraversiamo la ferrovia strisciando sotto il treno, tra i vagoni.

Non ci credo, a 15 anni. E poi?

Giriamo intorno alla carrozza, risalendo in quella che aveva già controllato. Videro tutti, ma nessuno ci denunciò.

E poi?

Sapevamo solo che dovevamo andare

al ristorante Bellaroma, in Teodolinde platz. Non sapevamo come fare.

E quindi?

Appena scesi incontriamo un paesano. Baci, abbracci, e lui ci dice: «C’è un vostro cugino che fa le pizze qui, nel chiosco della Banhof!».

Coincidenza incredibile.

Mica tanto: poi scoprii che era più facile trovare un calabrese che un tedesco.

Finisce a fare il lavapiatti e impara il tedesco?

Quale tedesco? Il napoletano, il siciliano, il pugliese stretto. Un master in dialettologia. E intanto faccio carriera.

Diventa manager?

Macché! Primo anno lavapiatti. Secondo anno lavapadelle, posto privilegiato e ambito perché ce ne sono meno. Terzo anno, una pacchia: le insalatiere, non ti sporchi.

E la sala?

(Risata). In sala c’erano quelli del Nord, che parlavano le lingue. Ma il quarto anno riesco con un salto sociale: divento cameriere.

E finisce l’avventura tedesca?

Sì, dopo cinque anni vado all’università e trovo un lavoro da animatore, e poi coordinatore nelle colonie estive con l’associazione Aquilone.

Come Alessandro Di Battista!

(Ride). Sì, ma lui al mio confronto era una rockstar. Per me uscire dal ristorante era una vacanza.

Le superiori le fa in Calabria?

Sì. In un paese in cui i diritti venivano concessi come una elemosina dai don, i notabili, i latifondisti. Vado allo scientifico, sogno di cambiare quel mondo.

Inizia a fare politica?

Come rappresentante di classe. Poi nella Fgci. Ma facevo anche musica, teatro, suonavo il flauto traverso.

Si iscrive a Scienze politiche a Roma.

Riesco a ottenere un posto nella casa dello studente di via De Lollis.

Lo dice come se avesse vinto alla lotteria.

Di più! Prendevo sei milioni di lire all’anno per merito e reddito. Due per l’alloggio, con quattro campavo senza chiedere una lira a casa. Gli ultimi arrivati stavano nei piani bassi.

I numeri cento.

Io ero nella 112. Un giorno bussa alla mia porta un noto giornalista: Paolo Liguori.

E come mai?

Mi sorride e fa: «Ero qui nel 1968. Volevo vedere chi c’è oggi».

Simpatico: vi siete più rivisti?

Mai più. Ma sentivo che con l’università avrei potuto realizzare i miei sogni. L’ultimo anno siamo arrivati al terzo piano, alla 304.

Addirittura. Ma «siamo» chi?

Io e la mia fidanzata, con cui convivevo nella stanza tre per tre.

Abusiva?

(Ride). Sì, lo so. Oggi sarebbe considerato un danno erariale, all’epoca si riusciva a sgattaiolare.

Anche a via De Lollis molti terroni?

Uhhh! Aspettavamo insieme il primo lunedì del mese.

Perché?

Alla stazione Tiburtina i pullman della Simet portavano i pacchi che le famiglie ci mandavano da casa: soppressate, ’nduja, pasta, conserva di pomodoro buona. Erano le economie familiari.

E come mai non per posta?

Altro danno erariale. Gli autisti, che ci conoscevano, trasportavano i pacchi gratis per solidarietà. Li prendevano

dalle nostre madri e li davano a noi.

Lei è il presidente di un’istituzione

e mi racconta una biografia piena di illegalità.

(Sorriso). Gliene dico un’altra. Tra gli studenti fuorisede molti erano idonei ma senza posto.

Come i precari della scuola.

Esatto. Ai tornelli della mensa, con un solo tesserino, passavamo in due: ogni giorno mi portavo uno di loro.

Un pasto in due?

Primo, secondo, contorno e frutta. Ma gli inservienti facevano sempre porzioni abbondanti per gli «idonei».

Illegale.

Io li definirei «peccati di socialità»: era un «welfare familiare» semi-clandestino.

Spieghi la differenza con un altro reato.

Come si fa a considerare un criminale un cuoco che mette due maccheroni in più a un ragazzo che vive con centomila lire al mese? Mi viene in mente un altro verso di De Gregori: «Cercasti giustizia/ e trovasti la legge». È un bel dilemma.

Come quello dell’Elemosiniere che si cala nel buco per rompere i sigilli.

Quel giorno sono stato contento.

Il presidente dell’Inps può?

(Pausa). Come cristiano posso dire che sono lieto che un pastore di anime si preoccupi delle vite, che risponda alla legge del Vangelo, oltre che a quella degli uomini. I leader spirituali si occupano di problemi etici.

Su che cosa si laurea?

Tesi sulla ex-Jugoslavia con il professor Napolitano. Siamo nel 2000.

E poi?

C’è la leva. La faccio da obiettore presso un Dipartimento di cooperazione della Regione Lazio. Dove mi capita la cosa più folle della mia vita.

Cioè?

Durante la campagna di aiuti internazionali devo portare dei medicinali a Cuba.

Bello!

Accetto con entusiasmo anche immaginandomi una sosta ai Caraibi.

E invece?

Per risparmiare l’associazione mi fa tornare con lo stesso aereo dopo una sosta di due ore. L’unica cosa che ho visto di Cuba è il check in dell’aeroporto. Mai più tornato.

Poi di nuovo all’università.

Il servizio civile viene sospeso perché riesco a vincere il dottorato.

Il reddito da quel momento diventa l’ossessione di una vita.

Inizio a studiarlo, a comparare i modelli, a scrivere articoli. Nel 2013 tra tutti i Paesi europei, l’Italia spendeva un terzo di quello che gli altri spendevano per i sussidi! Mi sembrava una follia.

Pubblica il primo  articolo «scientifico» in cui immaginava un modello italiano, che arriva fino a Di Maio.

Sulla rivista Argomenti: era il 2014. Il reddito è diventato la prima battaglia del Movimento. Ma se qualcuno mi avesse detto che, in soli cinque anni, avremmo prodotto questo risultato gli avrei dato del matto.

La critica principale, cito Carlo Calenda, è di aver mischiato assistenza e politiche occupazionali.

Non la capisco. Molti non sanno neanche quante possibilità offre questo strumento.

Per esempio?

Gli incentivi alle imprese: se ti assumono, prendono 18 mensilità meno i mesi percepiti.

Se trovi lavoro tardi non porti nessuna dote.

È uno stimolo. Ma abbiamo fissato un minimo di cinque mensilità così per il datore di lavoro è pur sempre conveniente assumere.

Facciamo un altro esempio meno noto.

Il patto di formazione. Metta che lei sia una società o un ente di formazione e voglia fare un corso per periti tecnici: guadagna le mensilità dei corsisti.

Ma solo se il lavoratore viene assunto.

Certo! Così abbiamo evitato il rischio «carrozzoni» di tutti i corsi di formazione che non funzionano.

Un rischio.

Esempio: io formo cento cuochi, o cento tornitori. La metà vengono assunti, e io incasso un tesoretto. Capisce che è un doppio incentivo?

Sia per il lavoratore che per il formatore?

Esatto. E poi c’è la start-up. Presenti il progetto al centro per l’impiego e incassi tutte insieme 12 mensilità che ti servono come capitale di partenza.

Poi c’è il patto di inclusione sociale.

Che mischia politiche di assistenza

e lavoro, come faceva il Rei. E per fortuna, dico io.

Facciamo un altro esempio.

Sei un papà povero e alcolista. Concordi un percorso con gli assistenti sociali che comporta mandare i figli a scuola e smettere di bere. Prendi il reddito solo se rispetto questi accordi.

E qui arriviamo al confine della marginalità.

Esistono diversi tipi di povertà: il povero emarginato ed escluso, e il povero da disoccupazione. A volte si sovrappongono, nella maggior parte dei casi no. Noi assistiamo entrambi, in modo diverso, con strumenti flessibili.

Così si spiegano i famosi camper.

Io Inps capisco chi sono quelli che non fanno nemmeno la domanda. Non sanno cos’è un Caf o un Isee.

Perché partite da Roma, Bologna Torino, Milano, Bologna e Napoli? Scelta politica?

Macché! Sono quelli dove c’è il più alto numero di senzatetto.

Come sceglierete chi va sul camper?

Su base volontaria. Ma il cuore dell’Inps è così grande che, prima ancora di bandire la richiesta, arrivano le domande. Se raggiungessimo tutti e 50 mila i senza dimora sarebbe un successo.

Quanti troveranno lavoro?

Non lo so, e - solo in questo caso - non mi importa. Dicano che sono paternalista, assistenzialista: non importa.

Aumentano i costi?

No, sono già compresi nelle nostre stime. Come per i «naspizzati» che entreranno grazie all’Isee corrente. Costeranno più o meno 100 milioni, ma loro hanno più possibilità di ritrovare un posto.

Lei è anche il padre del decreto dignità.

Su quello mi sono giocato la mia credibilità scientifica.

In che senso?

È stata una scommessa: quando vedo che siamo a più 200 mila contratti a tempo indeterminato, vorrei stappare uno champagne.

Quale è stato l’effetto?

Un grafico a X. Da luglio c’è una linea che cala, i contratti a tempo determinato, e una che sale, i contratti a tempo indeterminato. Quello che volevamo.

Non ha aumentato gli occupati totali, però.

Ha ricomposto il mercato del lavoro a favore del lavoro stabile. Guardi le «trasformazioni» da precario a stabile. Da 90 a 164 mila: più 82 per cento!

Come si fa a dire se il decreto funziona?

In un periodo di bassa crescita, il mercato del lavoro tiene. Il diritto crea dignità, ma l’occupazione si fa con gli investimenti. 

Cosa le ha detto Di Maio?

Era molto soddisfatto. Ha avuto il coraggio di investire sui diritti, e di cominciare dagli ultimi, in una fase non espansiva dell’economia.

E Quota 100?

Abbiamo 130 mila domande, arriveremo a 260 mila, forse più. Uno strumento utile. Permette alle persone un pensionamento flessibile e sostenibile. Il tasso di sostituzione è positivo.

Molti dicono che non sarà uno a uno.

Nel pubblico sì. Nelle grandi aziende anche di più. Certo, l’occupazione viene spinta dagli investimenti.

Il decreto dignità crea lavoro stabile, è più costoso per le aziende. 

Quando si parla di misure sociali bisogna pensare che quelle persone erano in difficoltà, dopo aver lavorato una vita, e che ora sono in pensione. Dobbiamo pensare che un milione di italiani non avevano un sostegno e adesso lo prendono.

Se non si considera questo?

Allora «è più economico» il lavoro precario, e persino tornare alla schiavitù è più economico. Spieghiamolo a questi iperliberisti. Dal punto di vista «economico» la schiavitù è perfetta. Piena occupazione e non costa nulla.      n

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Luca Telese