Ilva, perché chiuderla sarebbe un disastro
ANSA/LUCA ZENNARO
Economia

Ilva, perché chiuderla sarebbe un disastro

L’analisi dello storico dell’industria Federico Pirro: migliaia di posti a rischio, crollo delle imprese dell’indotto e dell’export di acciaio

"La chiusura dell'Ilva? Sarebbe una catastrofe per la città di Taranto e la provincia ionica, per la Puglia e per l’intero Paese”.  A parlare è Federico Pirro, docente di storia dell'industria all'Università di Bari, che  studia da decenni l'economia del Meridione e oggi non usa mezze parole nel commentare  una misura che il nuovo governo di Lega e 5 Stelle potrebbe mettere in cantiere, una volta che verrà scelto il premier e la squadra dei ministri. 

Stiamo parlando appunto della chiusura degli impianti siderurgici dell’Ilva che, a dire il vero, non è inclusa esplicitamente nel contratto di governo firmato dai due leader vincitori delle ultime elezioni del 4 marzo, Luigi Di Maio e Matteo Salvini. Nel documento messo a punto da Lega e 5 Stelle si parla genericamente di protezione dell'ambiente nella zona di Taranto, con l'eliminazione “delle fonti inquinanti e la salvaguardia dei livelli occupazionali”.

Un esercito senza lavoro

Ma nel blog delle Stelle, organo ufficiale dell'M5S, è stato ribadito con chiarezza che il movimento guidato da Luigi Di Maio lavorerà affinché il grande polo siderurgico tarantino, un tempo di proprietà della famiglia Riva, oggi in amministrazione straordinaria e in trattative per passare alla multinazionale ArcelorMittal, finisca di esistere una volta per tutte. 

Ecco allora che il professor Pirro snocciola qualche numero per ricordare cosa accadrebbe se la prospettiva delineata dalla nuova maggioranza giallo-verde prossima a governare diventasse realtà: “Quello dell'Ilva è il maggiore impianto a ciclo integrale d’Europa”, dice il professore pugliese, “ma anche la più grande fabbrica manifatturiera d’Italia con i suoi 10.980 dipendenti diretti, a cui vanno aggiunti altri 7.300 addetti indiretti nelle attività dell’indotto”. 

Il Nord a secco di acciaio

Pirro ricorda inoltre che l’età media degli occupati è di circa 40 anni e che il sito industriale di Taranto rifornisce “a valle” l’impianto di Cornigliano a Genova, che fa parte dello stesso gruppo e che verrebbe privato così di semilavorati trasformabili. Di conseguenza, molte aziende industriali del Nord Italia sarebbero costrette ad acquistare altrove, cioè all’estero, i materiali di cui hanno bisogno. 

A perderci, dunque, non sarebbe soltanto la zona di Taranto.  “Dei  quasi 11mila occupati diretti dell’Ilva”, continua Pirro,  “circa 4mila  risiedono nel capoluogo, altri cinquemila nei  comuni dell’hinterland, mille in provincia di Brindisi e i restanti nel Barese e nel Materano; il porto di Taranto perderebbe oltre la metà dei suoi traffici di materie prime e di prodotti finiti dell’acciaieria e  crollerebbero le piccole e medie imprese dell’indotto, che operano nel business dell’impiantistica, nei trasporti di tubi e lamiere, nel settore delle pulizie industriali, nella gestione delle mense aziendali e in altre attività commerciali alimentate dai consumi dei dipendenti della fabbrica e delle loro famiglie".

Export a picco

Ma un colpo durissimo, secondo i calcoli di Pirro, ci sarebbe  pure per le banche nazionali e locali che gestiscono, tramite i loro sportelli, i risparmi, i fidi e i mutui degli operai, dei tecnici, dei quadri e dei dirigenti della fabbrica e delle aziende collegate. Come se non bastasse, svanirebbero pure diverse prospettive di assunzione per gli ingegneri dell’Università di Lecce e i laureati del Politecnico di Bari  che ha sede una distaccata a Taranto . 

“Con la dismissione dell’ Ilva, la Puglia perderebbe circa il 10% delle sue esportazioni, con un calo del pil regionale prudenzialmente stimabile in circa 5 punti”, continua ancora il professore, “mentre l’Italia non avrebbe più il ruolo di secondo produttore di acciaio dell’Unione Europea alle spalle della Germania e il nostro mercato interno verrebbe in gran parte conquistato definitivamente da big player siderurgici esteri ”. 

Dunque, invece di addentrarsi in avventure senza ritorno come la chiusura della più grande fabbrica d’Europa, per Pirro sarebbe meglio pensare a farla funzionare a dovere, con una pulizia ambientale del sito, salvaguardando il lavoro e la salute dei dipendenti e dei cittadini. Il nuovo governo giallo-verde è avvisato. 

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Andrea Telara

Sono nato a Carrara, la città dei marmi, nell'ormai “lontano”1974. Sono giornalista professionista dal 2003 e collaboro con diverse testate nazionali, tra cui Panorama.it. Mi sono sempre occupato di economia, finanza, lavoro, pensioni, risparmio e di tutto ciò che ha a che fare col “vile” denaro.

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