Sandro Bottega: «Non dobbiamo essere italiani solo quando vince la nazionale»
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Industria

Sandro Bottega: «Non dobbiamo essere italiani solo quando vince la nazionale»

Il mondo dell’enogastronomia sta attraversando un periodo di grande cambiamento, dovrà sapersi rinnovare rispondendo prontamente alle sfide che il complicato mercato in questo frangente richiede. Tante sono le aziende che dovranno fare i conti con il cambio generazionale per poter cogliere le opportunità che si presenteranno in questo nuovo scenario.

L’innovazione e il marketing dovranno affiancare e talvolta superare la tradizione e la storia di troppe casate e di tante etichette coperte dalla polvere. Per capire quale visione di “fare impresa” può essere vincente, ne ho parlato con Sandro Bottega, grande imprenditore del vino ma anche di grappa e prosecco che con 160 dipendenti, 16 milioni di bottiglie vendute all’anno di cui 85% in 150 paesi del mondo, 28 ristoranti, una vetreria, 154 marchi e brevetti depositati, riconosciuto wine marker of the year nel 2018, ha dimostrato capacità ed acume per rilanciare l’azienda di famiglia e superare brillantemente le difficoltà che ogni imprenditore incontra sulla strada per raggiungere il successo.

Dott Sandro Bottega, in che direzione sta andando il mondo del vino?

«Il mercato lo vorrebbe portare solamente su due direzioni: o verso il miglior prezzo, giocando al ribasso, o verso il super lusso. Ma esiste sempre una terza via: il successo sta nel fare il proprio mestiere con perseveranza, correttezza, visione a lungo termine; con capacità innovativa costante, dobbiamo stare dalla parte della scienza che ci aiuta a costruire vini sempre più sani, più buoni e più rispettosi dell’ambiente. All’estero gli imprenditori investono e sono più forti nel marketing, noi dobbiamo competere con altrettanta capacità di valorizzazione dei nostri prodotti e di commercializzazione per riuscire a vendere i vini ad un prezzo giustamente competitivo».

Che ne pensa della finanza che investe nel mondo del vino? Può aiutare questo processo?

«Io sono favorevole al mondo della finanzia che entra nel mondo del vino perché gli apporta la cultura economica, ma deve farlo con pacchetti di minoranza, altrimenti perdiamo la storia, la qualità, la passione e la visione di lungo periodo, che sono i nostri asset vincenti; deve essere un supporto per l’imprenditore e accompagnarlo ad una corretta gestione».

Cosa potrebbe fare lo stato per aiutare il comparto?

«C’è bisogno di sburocratizzare il comparto e di renderlo più moderno e competitivo con una defiscalizzazione, soprattutto nei compensi e negli incentivi del personale, anche per permettere un maggiore coinvolgimento e far sentire ogni singolo dipendente parte integrante di un progetto».

Come possiamo diventare più competitivi nel mondo?

«La competitività viene cercata o con il miglior prezzo, o con la migliore qualità (che però, se troppo di nicchia, resta prerogativa di pochi); ma le nostre imprese, per essere vincenti, devono fare un eccellente prodotto e sapersi posizionare a prezzi corretti grazie anche ad azioni di marketing. Solamente così tutto il sistema è sostenibile, cresce e ne beneficia».

Ci viene descritto un settore con dei numeri in costante crescita. Cosa ne pensa?

«I dati di consumo del vino sono stabili in Italia, a fronte di un lieve aumento delle esportazioni. Per fortuna esiste un miglioramento generale qualitativo e di posizionamento di prezzo del vino italiano. L’unico prodotto che ha una crescita importante è il prosecco (e gli spumanti in genere) perché è andato ad identificare una nicchia di mercato che è quella dei vini spumanti, che contano meno del 8% dei consumi mondiali, ma che sostanzialmente fino ad oggi era rappresentato solo dallo champagne. Il prosecco ha impiegato 40 anni sul mercato per essere identificato ed apprezzato. Nei vini fermi questo successo non c’è perché, da una parte esistono troppe cantine con incapacità tecniche e di marketing che vendono prodotti di bassa qualità e li propongono a basso prezzo, soprattutto all’estero e così non creano consumatori e dall’altra ci sono tantissime altre cantine che producono vini di ottima qualità ma non hanno capacità di marketing e di posizionarsi sul mercato».

Come vede in particolare la Toscana in questo momento?

«La Toscana, prima ancora del Piemonte e del Veneto, è la regione dove si sono fatti enormi miglioramenti sul prodotto. Se volessimo confrontare il Chianti di 30 anni fa, dovremmo concludere che il prodotto era peggiore mediamente rispetto a quello attuale e la stessa cosa è avvenuta in Valpolicella. Successivamente negli anni ’90 ci siamo rilanciati grazie ai grandi toscani ma la realtà è che i prezzi erano troppo alti rispetto ai grandi vini del resto d’Italia e del mondo, per fortuna il chianti lo ha capito per primo, si è livellato ed oggi sta raggiungendo un posizionamento corretto. Quello che manca la capacità di fare squadra e vendere un territorio tutti insieme».

Per concludere?

«Non dobbiamo essere Italiani solamente quando vince la nazionale. C’e un antico detto a Venezia che afferma che una persona diventa veneziana quando segue gli usi e i costumi del posto; noi dobbiamo fare in maniera che la nostra cultura venga sviluppata! Per esempio quando ci capita di parlare di un’altra cantina, magari del vicino, se ne deve parlare bene. La cultura del vino è italiana, non dobbiamo mai dimenticarci che il nostro paese si chiamava “enotria” e se oggi ed in futuro non riusciamo ad essere il faro per il mondo del vino abbiamo perso la sfida».

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Federico Minghi